Ci rivedremo ogni 25 (?) anni

Quête alla ricerca delle radici della tv contemporanea

di Matteo Zucchi

Il rizoma non ha un principio e non ha una fine: è sempre nel mezzo, tra le cose, intermedio, intermezzo. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille Piani (Mille plateaux, 1980)

2019. Termina Il trono di spade, una delle serie di maggiore successo di sempre, nonché apice del percorso di avvicinamento al cinema portato avanti dal network via cavo HBO. Con il budget medio per episodio più alto di sempre, Game of Thrones (2011-2019) ha elevato la narrazione corale tipica del suo format a blockbuster audiovisivo. 2017. Dopo un’attesa di 26 anni il ritorno di Twin Peaks dimostra quanto il cinema di David Lynch sia mutato nel frattempo e quanto una narrazione seriale non possa più contenerlo (di nuovo), se non scorporandosi in un turbine di frammenti spesso ambigui e in continua trasformazione. La stessa serie viene poi insignita dai Cahiers du cinéma del titolo di miglior film dell’anno, ribadendo l’amore della cinefilia francese per il regista di Missoula ma anche la rilevanza conseguita dalla narrazione seriale nel sempre più agguerrito panorama mediale odierno. Anche tralasciando la discutibilità della provocazione dei Cahiers è interessante chiedersi quando la televisione, a lungo produttrice di contenuti definiti di bassa o inesistente qualità, sia divenuta (o meglio, si sia autodefinita) l’avanguardia del mondo audiovisivo.

Bisogna fare un passo indietro. Nella seconda metà degli anni ‘90 nel panorama televisivo statunitense tutto sta cambiando: la digitalizzazione e la sempre più evidente tendenza alla conglomerazione producono mostri che coprono tutto lo spettro mediale e annettono al loro interno aziende spesso in competizione. Esponente più rilevante di questo processo è la Disney, che diventerà regina del mercato solo nei 15 anni successivi, tramite l’acquisto del network ABC, per quanto non si possano dimenticare le meno note aziende fornitrici di servizi via cavo Comcast e AT&T, i cui imperi commerciali sono in espansione tuttora. In quest’epoca la competizione si sviluppa fra sempre meno contendenti e con crescente antagonismo e quindi i prodotti per trovare collocazione nel mercato debbono distinguersi nettamente: si sviluppa la quality television delle reti cable su modello del successo di HBO, concentrata su narrazioni lente, ricche di digressioni e di personaggi stratificati, così come di tematiche e situazioni che mai potrebbero (o meglio, avrebbero potuto) trovare posto nelle reti generaliste dei network, i quali invece si concentrano su serie dai mondi narrativi estesi a sufficienza da permetterne un prolungamento potenzialmente illimitato, così come abbastanza iconiche per quanto riguarda contesti e personaggi da poter garantire seguito per ogni possibile rimediazione.

Ma si deve fare un ulteriore passo all’indietro. Questa divisione di matrice produttiva (e da cui è ovviamente esclusa ancora la maggior parte della serialità televisiva, destinata a non incontrare mai il paradigma quality e transmediale) non fa che scomporre in due filoni – che pur sono spesso ibridati, come appunto in Game of Thrones – i nuovi orizzonti della narrazione tv già sondati in Twin Peaks. Il Quarto potere del piccolo schermo (me lo si conceda) propone difatti una narrazione orizzontalmente costruita, più interessata al quadro che al singolo episodio, e cui il talento immaginifico di David Lynch dona uno stile sicuramente iconico. Non si pensi che l’opera del cineasta americano e di Mark Frost abbia comportato una palingenesi del formato seriale: la cosiddetta narrazione multistrand viene adoperata dalla soap opera dagli anni ‘70, mentre già agli inizi del decennio successivo un prodotto del network generalista NBC come Hill Street giorno e notte (Hill Street Blues, 1981-1987) di Steven Bochco ne fa ampio utilizzo nel descrivere la complessa vita di un distretto di polizia metropolitano.

Il medesimo network pochi anni dopo produce Miami Vice (1984-1989), serie stilisticamente rivoluzionaria quasi quanto quella di Lynch, grazie anche alla regia dinamica voluta dallo showrunner Michael Mann, a riprova della matrice non necessariamente cable delle retoriche di qualità.

Ancora. Gli anni ‘80 non bastano: bisogna proseguire in questo viaggio, arrivando fino all’inizio del decennio precedente. Glissando volutamente sulle pur influenti soap opera del periodo, si giunge alla grande riforma del panorama televisivo del 1970. In quell’anno una serie di norme costringe i network a ridurre il proprio potere sulle emittenti locali che trasmettono i loro programmi e sui produttori, costretti molto spesso a compiacere completamente alle richieste delle grandi reti, le uniche a poter coprire interamente gli investimenti. La forzata liberalizzazione del settore permette l’ingresso nel mercato televisivo di produttori indipendenti e major cinematografiche allo stesso modo, importando molte delle novità del cinema della New Hollywood in televisione, così come molti talenti, la cui caccia ha a questo punto un’accelerazione significativa. Apripista è la personalissima sitcom al femminile The Mary Tyler Moore Show (1970-1977), incentrata sull’eponima sia dentro che fuori dalla narrazione, mentre le monumentali miniserie Radici (Roots, 1977) e Olocausto (Holocaust, 1978) dimostrano le potenzialità, ancora in nuce, delle narrazioni di lungo corso che faranno la fortuna della tv americana. Ed è significativo rimarcare siano tutte tre realizzate da un network differente.

À rebours. Si potrebbe continuare ad andare indietro nel tempo per scoprire che anche nella televisione delle origini si trovavano produzioni e retoriche di eccezionalità, come nei drammi di matrice (e firma) teatrale dei primi esperimenti di trasmissione live o nella Rai pedagogica degli anni ‘50 e ‘60 (su modello della BBC). L’inferiorità percepita del medium televisivo nei confronti di tutti i suoi possibili competitor ha sempre spinto al perseguimento di una peculiarità, spesso diversa nei risultati e nelle cause. In un’epoca in cui Netflix e le altre piattaforme OTT combattono con le reti via cavo e fra loro per produrre un numero sempre maggiore di prodotti seriali (non a caso molti esperti parlano di peak television), e sono alla ricerca smodata di attori e autori di talento grazie ai quali piazzare con più facilità le proprie opere, sembra solo questione di tempo prima che questa stessa storia divenga lo spunto per una serie.

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