
L’enigma del quotidiano nelle serie TV The Outsider e Servant
di Filippo Zoratti
La bibliografia di Stephen King è costellata di leitmotiv e temi ricorrenti ampiamente scandagliati da studiosi e fan, al fine di rintracciare i fili rossi che uniscono le sue passioni/ossessioni artistiche e comprendere la vera ragione della sua unicità e irriproducibilità. Da Carrie (1974) a Shining (The Shining, 1977), fino a It (1986) e Misery (1987), tutta l’opera del Re racconta come affrontare il Male. Del resto, come lui stesso ama sottolineare, «il male è dentro di noi. Più passano gli anni più mi convinco che il diavolo non esiste: siamo noi il diavolo». Proviamo a spingerci un po’ più in là, a partire da questa affermazione: la malvagità è insita nell’essere umano, alberga nella nostra mente ed è, prima o poi, destinata a esplodere e a palesarsi. Per questo, prima del dramma e dell’incubo, si inizia da una situazione di apparente normalità, da una rappresentazione sovente forzata di famiglia, raziocinio e quotidianità che già contengono in nuce le stimmate della follia che seguirà. Saranno poi l’horror e il fantastico a fare da grimaldelli per la comprensione di ciò che accade, perché l’esplicitazione della corruzione e della deviazione dal percorso prestabilito portano sempre con loro una fortissima quota di mistero, destinato a rimanere tale. La telecinesi di cui è dotata l’adolescente bullizzata nel sopraccitato Carrie, la cupola trasparente che cala su una cittadina del Maine in The Dome (Under the Dome, 2009), il varco temporale nel retro di una tavola calda che porta esattamente alle 11:58 del 9 settembre 1958 in 22/11/63 (11/22/63, 2011) sono enigmi insondabili che modificano una prassi assodata, turning point da cui desumere metafore e sarcastiche analisi sull’inesistenza e inconsistenza dell’american dream.
L’arcano avvolge anche The Outsider (2018), romanzo da cui è stata tratta nel 2020 un’omonima ed efficacissima mini-serie televisiva ideata dal Richard Price di The Night Of – Cos’è successo quella notte? (The Night Of, 2016). Qui a stravolgere l’esistenza della provincia americana non è tanto l’indagine sull’omicidio di un ragazzo – data come eventualità possibile, se non addirittura probabile – quanto l’assurda forza soprannaturale che si fa strada nel caso. È possibile essere in due posti diversi nello stesso momento? Ovviamente no, a meno di non avere a che fare con un avatar o, meglio ancora, con un doppelgänger, un doppio che rimanda ad un “gemello cattivo” e al fenomeno della bilocazione (con annesso presagio di morte). Nei panni del detective Ralph Anderson siamo così chiamati a un abbandono progressivo e inesorabile della ragione (che goyanamente continua sempre a generare mostri), e all’accettazione di un’incomprensibile incognita che ci smuove dalla nostra comfort zone verso i territori dell’ignoto.
King sfida il mondo della credibilità, alza l’asticella del plausibile e chiede al lettore – o allo spettatore – un enorme atto di fiducia. Per certi versi simile è il modus operandi del regista M. Night Shyamalan, che stordisce il proprio pubblico con delle sorprese e dei colpi di scena che svelano all’improvviso il rebus imbastito fino a quel momento, complicando in verità ancor di più l’intreccio. È il cosiddetto Shyamalan twist, che ricompone le suggestioni disseminate qua e là lungo il film spesso ribaltando l’intera struttura della storia. Ci vengono in mente soprattutto The Sixth Sense – Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999) e The Village (2004), opere appartenenti al periodo d’oro del cineasta di origine indiana, a cui aggiungiamo la serie televisiva Servant (2019), non ideata da Shyamalan ma da lui diretta e prodotta. Sono racconti che, in chiave thriller, ci guidano attraverso continue false piste: nei primi due casi siamo portati a far coincidere il nostro punto di vista con quello di un ipotetico narratore onnisciente, a fidarci di uno sguardo ingannatore che ci imbroglia rendendo ancora più sconvolgente la rivelazione finale. Con Servant, invece, accade qualcosa di diverso: la prospettiva si frammenta, il campo visuale-informativo si modella su più personaggi seguendo quindi il principio della focalizzazione.
Servant è piena di tranelli psicologici, a partire da un incipit percorso da una sottile e claustrofobica tensione, nonostante la rappresentazione sia banale e oggettivamente noiosa: una famiglia esemplare dell’alta borghesia formata da padre chef e madre giornalista TV, con neonato a carico e la necessità di assumere una tata per meglio accudire il piccolo. Tutto – dalle superfici lucide della casa agli sguardi spesso terrorizzati dei protagonisti, fino all’attenzione quasi maniacale rivolta ai silenzi e ai rumori – ci suggerisce però che quella che stiamo osservando è una messinscena, una simulazione di inattaccabile perfezione. E il primo twist – evidente sia nel trailer della serie che in qualunque sinossi – arriva subito, amplificando la sensazione di inquietudine: il bambino non esiste, è una bambola reborn utile a riportare la genitrice a uno stato di consapevolezza da quello catatonico in cui è caduta dopo la morte del figlio vero. Col passare degli episodi, tuttavia, non è chiaro se questa sia la versione più corretta a cui dare adito, perché ogni carattere esprime in modalità sempre più netta la propria anormalità sociale ed esistenziale. Ognuno offre una visione e una propria realtà dei fatti, contribuendo alla creazione di un incubo urbano in cui la coppia è imprigionata nella sua stessa magione e nei segreti che essa nasconde. Sia King che Shyamalan non ci chiedono di risolvere il rompicapo, ma di accettare il mistero del quotidiano, sopportando il fatto che non tutto sia sempre riconducibile alla coerenza. Non c’è mai una lettura semplice delle persone e della realtà: tutto ha un lato oscuro e una trama più complessa di quella che appare.