
di Diego Tonini
Lo confesso, sono un architetto. Avete ragione, non è il caso di farne una tragedia, anche perché Atene è piena di gente che scrive lagne del genere e non serve che mi lamenti pure io, e di questi tempi se hai un lavoro è meglio tenertelo stretto. Il fatto è che io volevo fare l’archeologo, però mi hanno detto di lasciar perdere perché siamo nell’età del bronzo e se mi mettessi a scavare qua sotto non troverei altro che terra, pietre appuntite e qualche legnetto bruciato.
Allora mio padre, che era re di Atene e un po’ di agganci ce li aveva, mi disse: «Studia, regazzi’, fa’ l’architetto che poi quarche appalto t’o rimedio io, te faccio costrui’ du templi e te sistemi per bene.»
Non aveva mai imparato il greco antico, mio padre, conosceva solo il dialetto.
Non ero entusiasta dell’idea, ma sempre meglio che mettersi i mutandoni di cuoio e partire per qualche guerra; così ascoltai papà, e credetemi, meglio non contraddire un re anche se si è suo figlio, hanno il boia facile, e mi misi a studiare.
Purtroppo a quei tempi la città brulicava di filosofi che non facevano altro che passeggiare e rimuginare su tutto, e secondo loro non era etico che il figlio del re costruisse i templi per la polis. Fecero tanto casino che convinsero tutti i cittadini, e papà dovette dare l’appalto a uno che non fosse suo parente, impresa piuttosto difficile visto quanto si accoppiano gli antichi greci. Così mi ritrovai col mio pezzo di pergamena in mano e senza un lavoro.
«Papà, quasi quasi io faccio il concorso in ferrovia» proposi, ma lui mi spaccò un’urna in testa e gridò: «Ma brutto fijo d’un ciclope, che stai a di’? Primo, la ferrovia non l’hanno ancora inventata, secondo, te pare che er fijo del re vada a fa’ il controllore? E terzo, stamo ad Atene, mica in Magna Grecia, qua pe’ vince i concorsi devi da studia’!»
Stavo per replicare che se ero riuscito a diventare architetto potevo anche passare un concorso, ma lui mi fece cenno di tacere, mi cinse le spalle col braccio e sussurrò:
«Ce sta n’amico mio che fa er re de Creta, je mando un Filippide e l’avviso che te voi trasferi’, vediamo se te rimedia un lavoretto tanto pe’ comincia’, un tempietto d’un dio che nun se caga nessuno, poi magari na cretina che te sposa la trovi pure.»
«Cretese.»
«Che dici?»
«Le abitanti di Creta si chiamano cretesi.»
«Vabbè, come te pare a te.»
Allargai le braccia, almeno era un modo per andar via di casa. Così, compasso in spalla, partii per Cnosso.
Quando giunsi a palazzo, Re Minosse mi squadrò con occhio torvo.
«De chi situ, ti?» proruppe con voce tonante.
«Prego, maestà?» balbettai. Il dialetto cretese non mi era familiare.
«Di chi sei? Da dove vieni?» ripeté.
«Sono Dedalo, maestà.»
«De Dolo? No me par che l’abbia ancora fondata, quea città.»
Mi inchinai, che di fronte a un re fa sempre bene, e risposi: «No, maestà, sono Dedalo da Atene, per servirvi.»
Il re si colpì la coscia con una mano. «Ma potevi dirlo subito! Sei venuto per farti mangiare vivo dal Minotauro?»
Scoprii così che i rapporti tra Atene e Cnosso non erano così idilliaci come papà voleva farmi credere.
«Se possibile preferirei di no» risposi.
Non sembrava convinto. Si grattò la testa, guardò i cortigiani e tornò a fissarmi.
«Eora parché te si qua?»
Pensai che probabilmente il messaggero che aveva mandato papà non era finito molto bene.
«Mi ha mandato mio padre a prendere servizio presso di voi, sono un architetto.» Alzai con cautela lo sguardo verso Minosse che si accarezzava la folta barba.
«Un architetto dici… scolta qua, forse ho un lavoro per ti: me fiol bastardo, Minotauro…»
«Volete che gli costruisca una prigione?» azzardai.
Agitò le braccia. «Situ matto? Dopo chi la sente so mama? Voglio che gli fai na casetta tutta per lui, vicina al palazzo, ma no tanto, che è ora che vada fora dai coioni.»
Mi strinsi nelle spalle. Per me era più adatta una prigione, ma i soldi ce li metteva lui.
«Come desiderate» risposi.
Minosse scese dal trono e mi mollò una pacca sulla spalla che mi fece piegare in avanti. «Bravo, toso! Comincia subito, prima che Mino torni, che quando arriva a casa ha sempre fame.»
Non me lo feci ripetere e mi rinchiusi nello studiolo che mi avevano assegnato.
La settimana dopo, di buon mattino, corsi nella sala del trono. «Ecco qui» annunciai, srotolando il progetto.
Minosse sbadigliò e si alzò, borbottando e mugugnando mentre si avvicinava. Chinai il capo e lui mi mollò una manata sulla schiena.
«Bravo, ceo!» esclamò, «no mal, par essar uno de Atene.»
Ripresi a respirare giusto in tempo per tossire un «Grazie.»
Il re camminò intorno alla piantina, vicino alla piantina, sopra alla piantina, si sedette sul progetto, allargò le braccia e disse: «Bon, comincia subito a costruire, ti darò i migliori mureri di Creta!»
Ed erano bravi davvero, a parte la tendenza a tracannare anfore su anfore di quella bevanda schiumosa tanto in voga tra gli Egizi, e ad aspirare il fumo di piccoli cilindri di papiro che tenevano sempre in bocca. Parlavano una lingua ancora più strana di quella di Minosse, ma sembrava capissero i miei ordini e lavoravano in fretta; la villa sarebbe stata pronta prima dell’inverno.
E così fu, ma il re non era molto contento del risultato.
«E cossa sarìa sta roba?» urlava, mulinando le braccia mentre percorreva il perimetro della costruzione, «te pare na villa? Non ha finestre, le stanze son tutte incasinae, i corridoi se piega a destra e sinistra, no se capisse niente!»
Osservai il progetto e poi l’edificio: in effetti non erano proprio uguali, qualcosa non era andato come previsto.
Alzai gli occhi verso i muratori che stavano con la schiena appoggiata a un muro appena costruito, parlottando fra loro con i soliti fasci d’erba stretti fra i denti. Cercai i loro sguardi, ma nessuno mi fissò e non provai nemmeno a chiedere qualcosa, tanto non avrei capito la risposta.
Minosse mi strappò il progetto dalle mani. «Allora? Cosa dici?» urlò, puntando il dito che tremava di rabbia contro la pergamena.
«Vedete, maestà, il fatto è che…»
«Quale fatto? Qua è tutto storto!» Esclamò con una voce che avrebbe fatto tremare i vetri, se fossero già stati inventati.
«Insomma…» feci.
«Insomma un casso! Come hai fatto a combinar sto casin?»
Sollevai la testa e indicai dietro di me, verso la folla che assisteva, confabulando e ridacchiando. «È colpa loro!» strillai, «sono qua da quando abbiamo cominciato a costruire, mi fissano da dietro la rete con le mani dietro la schiena!»
Minosse piegò la testa da un lato. «Quindi?»
«Mi rendono nervoso» sbottai, allargando le braccia, «e parlano, borbottano e scuotono la testa, poi puntano il mento e dicono: “butta meno sabbia, falla più grassa la malta che no tien, tira su dritto il muro, te ga misurà mal, sta tento che no va ben, ocio col filo a piombo…” a un certo punto mi hanno mandato in confusione, non ci ho capito più niente e ho cominciato ad ascoltarli. “Fate voi!” ho detto, ed è venuta fuori sta roba.»
Mi buttai ai piedi del re, sul punto di piangere, e gli abbracciai le caviglie. Lui si liberò e fece due passi indietro.
«Dai, dai, caro, no sta far ste scenate!» disse.
Tirai su col naso e mi rimisi in piedi, erano scappati tutti, muratori e vecchi impiccioni, lasciandomi solo con Minosse, che mi afferrò il retro del collo come una tenaglia.
«Dime, ceo, come la vuoi chiamare sta roba? Scegli un bel nome, perché sarà casa tua per il resto della vita» fece un ghigno.
Piegato in due dalla stretta del re, sussurrai. «Che dite di labirinto, maestà?»