
L’estrema illusione del genio
di Eugenio Radin
Il pensiero filosofico di Leopardi (e non staremo qui a discutere con chi ancora si ostina a non voler considerare Leopardi un filosofo) si muove, a ben vedere, tutto all’interno di una dicotomia fondamentale: quella cioè che il recanatese tratteggia tramite la separazione dei due regni della Natura e della Ragione, cui appartengono, rispettivamente, il piano dell’illusione e quello della verità. Ma anziché abbracciare l’amore per la verità, che sin dai tempi arcaici era stato il compagno inseparabile dell’amore per il sapere (cioè della ϕιλο-σοϕία), Leopardi sceglie di schierarsi prepotentemente dalla parte dell’illusione e “con franca lingua,/ nulla al ver detraendo,/ confessa il mal che ci fu dato in sorte”; ovvero denuncia l’irreparabile danno cui inevitabilmente porta, stando al poeta, la “Dea Ragione”, stupidamente venerata in quel “secol superbo e sciocco” che era stata la stagione dell’illuminismo.
Per comprendere il motivo di tale accusa nei confronti della Ragione, è però necessario fare un passo indietro e cercare di definire ciò che il poeta intende, quando parla di Verità.
Per capire ciò, possiamo fare riferimento a quanto il giovane Leopardi annota all’interno dei diari dello Zibaldone già nel 1819, a soli ventun anni. Scrive il poeta: “Io era spaventato nel trovarmi in mezzo al nulla, un nulla io medesimo. Io mi sentiva come soffocare considerando e sentendo che tutto è nulla, solido nulla”.
Ciò che infatti appare a Leopardi come l’evidenza suprema e innegabile è il divenire presente in natura: la casuale e momentanea uscita dal Nulla di tutti gli enti, e il loro inesorabile e definitivo ritorno in esso.
Se il Nulla che attornia le cose è l’evidenza empirica innegabile, se dunque il divenire è sovrano di questo mondo, allora risulta chiaro che non può esistere alcun assoluto, alcun eterno, nessuna idea platonica che si ponga come ragion d’essere delle cose che sono, nessun Dio creatore del cielo e della terra, nessun ideale imperituro: se difatti esistesse un modello preesistente alle cose, tale modello assoluto ed eterno contraddirebbe la realtà del divenire; ma dacché il divenire è evidente non resta che negare l’assoluto. Non resta che respingere, a ben vedere, lo stesso piano dell’Essere; non resta che rifiutare l’ontologia. La verità, tremenda e ripugnante, è il nascere e il perire senza scopo di ogni cosa: è lo scenario profetizzato dal Gallo silvestre quando, sul finale del cantico, Leopardi scrive:
Tempo verrà che esso universo e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che non furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.
È Leopardi il primo pensatore che, ben sessant’anni prima di Nietzsche, arrivò a toccare l’essenza del nichilismo, ad ammettere che “tutto è nulla”, a profetizzare la morte di Dio e la fine di ogni assoluto.
E tuttavia, sostiene il filosofo di Recanati, l’uomo non era destinato da principio a subire la visione del Nulla: lo stato di natura originario, presente prima della comparsa della Ragione, era dominato dall’illusione degli infiniti, dalla forza di ideali assoluti in grado di spingere l’umanità a compiere gesta leggendarie. Era il regno delle virtù, degli eroi e delle narrazioni epiche: il divenire certo era già allora reale, ma si mimetizzava tra le pieghe di un tessuto mitico che lo nascondeva agli occhi ancora sognanti degli uomini, i quali potevano così vivere felicemente il loro stato.
È invece con la comparsa della Ragione che all’uomo si svela la verità: una comparsa del tutto casuale e immotivata (così come casuale e immotivata è la comparsa di ciascun ente), ma ugualmente nefasta e tragica. La ragione, la verità, ha distrutto ogni illusione, perché ora il divenire è evidente a tutti: è evidente il “solido nulla” che ingurgita insaziabile ogni ente e che cancella ogni possibilità di fede in un Essere eterno, in un modello intramontabile, nell’immortalità degli uomini e delle loro azioni.
La dimensione dell’Essere, la sola entro la quale l’uomo può sfuggire al pessimismo e alla noia, rimane aperta solamente nel regno dell’illusione, ma la feconda stagione delle illusioni naturali è ormai terminata e non è concesso all’uomo di riacquistare fede nei piacevoli inganni della natura, una volta smascherati. In un primo tempo Leopardi sembra trovare nel Cristianesimo lo stato di maggior felicità concesso all’uomo dopo l’irruzione della Ragione, in quando la fede neotestamentaria tenta di riaprire la speranza dell’assoluto in un al-di-là raggiungibile dall’uomo una volta terminata la sua esistenza terrena.
Tuttavia l’umanità non può essere consolata da questa speranza, perché ciò che essa ricerca è una felicità materiale e palpabile. Presto anzi il Cristianesimo finisce per essere considerato dal recanatese il massimo dei danni: se la visione della verità rende infatti difficile sperare nella salvezza eterna, il credo cristiano finisce al contrario per instillare anche nell’uomo più ragionevole il dubbio della dannazione e per proibirgli il suicidio: unico porto possibile per i propri mali5.
Accantonato il credo cristiano, rimane però per Leopardi un’ultima estrema illusione possibile, ed è il canto del Genio. Nella poesia, o meglio nella propria poesia (che è dunque da intendersi sempre come il sommo punto di arrivo di un ragionamento filosofico e da tale ragionamento non può essere scissa) Leopardi vede un’ultima remota possibilità per l’uomo di alzare la testa ed ergersi nobilmente davanti all’avanzare spietato del nulla. La poesia leopardiana esprime nel suo contenuto la verità, non risparmia all’uomo la rappresentazione della tragedia esistenziale, ma nella sua forma essa acquista la potenza del canto, coinvolgendo un’ultima volta l’umanità in un’illusione di bellezza e di infinito. Il nuovo eroe è, per Leopardi, colui che ha il coraggio di ergersi in piedi davanti al suo triste destino e di cantare un’altra volta ancora, col massimo della sua voce e della bellezza concessagli, la malattia mortale dell’uomo.
Termina così, ai piedi del Vesuvio, proprio lì dove è più visibile la morte, la produzione leopardiana: con un ultimo canto che è probabilmente il picco al contempo più alto e più tremendo della poesia contemporanea europea, ultimo baluardo dell’Essere di fronte a un Nulla inevitabile e certo:
Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
d’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.