
Un caso di detection passiva rivelatrice dell’oltre
di Cinzia Agrizzi
C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo.
(L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore)
La risoluzione di un mistero legato a un crimine è prerogativa della cosiddetta detective story, genere di intrattenimento nato tra Otto e Novecento, costituito da uno schema rigido e predefinito e, soprattutto, rivelatore dell’umana inclinazione a nascondere, a travestire e quindi a scoprire ciò che non riusciamo a vedere ma è vicino a noi, mascherato o sconosciuto. In alcuni casi, la struttura del poliziesco è semplicemente usata «come proposta d’“ingombro”, come massa di manovra per deviare in modo simultaneo due strutture divaricate o distinte». È quanto si verifica in Quaderni di Serafino Gubbio operatore, esempio di poliziesco allotropico che utilizza le procedure del giallo canonico in modo alternativo e che si instaura nel quadro di riferimento del romanzo naturalista e del feuilleton ottocentesco: da un lato, infatti, Pirandello innesta sul modello naturalistico un nuovo modello narrativo scandito da una visione del mondo “relativa”, segnando «la parabola della fine del romanzo naturalista»; dall’altro, declina la vicenda dei personaggi comprimari secondo la formula del dramma d’appendice, il cui finale è sancito dall’omicidio della ammaliante attrice russa Varia Nestoroff per mano del suo ex amante Aldo Nuti, a sua volta sbranato dalla tigre che avrebbe dovuto sopprimere sul set del film in lavorazione, un soggetto indiano dal non casuale titolo esotico – di per sé associato al mistero – La donna e la tigre.
A reggere tale impalcatura narrativa è la voce del protagonista, Serafino Gubbio, un operatore cinematografico prestato a detective, tramite il quale l’autore sfrutta la struttura e i loci del poliziesco, infrangendo la rigida normatività del modello tradizionale e attuando uno “slittamento” della detection. Oltre a negare la struttura binaria-oppositiva del testo giallo, chiuso tra i due poli incipit ed explicit, il romanzo di Pirandello respinge l’iter positivo classico: l’oggetto di indagine non si esaurisce nella sola individuazione del colpevole e il fine va al di là del puro intrattenimento del lettore, allontanandosi dai presupposti ideologico–formali del modello canonico. L’“inchiesta passiva” condotta da Serafino non previene e non risolve nulla, è priva di qualsivoglia componente rassicurante, consentendo una riflessione extra-testuale e “umoristica” per la quale la verità non è afferrabile.
I tòpoi del poliziesco sono infatti l’occasione per dire altro, per dar voce alla visione poetica ed esistenziale dello scrittore: la forza intellettiva del personaggio pirandelliano, piegata all’investigazione, coglie connessioni che ad altri sfuggono, unisce punti invisibili e traduce intimamente l’esigenza profonda dell’essere umano di conoscere, di conoscersi e di sopravvivere. Così Serafino Gubbio, nei panni di un Holmes allotropico, nel corso della storia fluttua tra i ruoli di detective, assassino e vittima, contravvenendo alla fissità sclerotizzata delle funzioni del poliziesco canonico, nel quale i ruoli sono chiaramente definiti e non intercambiabili. Egli demistifica l’illusione e rivolge un atto di accusa contro la società contemporanea, contro la cultura del divismo e la civiltà delle macchine. Attraverso lo sguardo impassibile dell’operatore, Pirandello si confronta con le nuove forme di spettacolo del mondo moderno e con il progresso futurista per mostrare l’alienazione dell’uomo, prefigurando il suo passaggio definitivo al teatro, la «soluzione del palcoscenico sul palcoscenico»: questo, in opposizione alla riproduzione morta di immagini del cinema, riproduce immagini vive e personaggi reali, divenendo luogo deputato all’intervento attivo e alla rappresentazione dell’oltre.
Il finale del romanzo, con l’omicidio di Varia Nestoroff messo a punto da Nuti e la morte di quest’ultimo divorato dalla tigre, rivela infatti un effetto ben calcolato di Pirandello, che tutta questa impalcatura ha messo in cantiere per rovesciare sulla realtà il mondo della fiction, così come gli strumenti rivoltano l’aggressività contro l’uomo che li ha creati.
Emerge, pertanto, la critica estraniata del reale, dell’industria cinematografica come finzione e spersonalizzazione alienante che toglie significato alla vita e all’arte.
Nell’explicit, infatti, non solo si concretizza il delitto, coprendo uno spazio ben diverso da quello che occupa nell’ambito del poliziesco canonico, ma non si perviene ad alcuna verità, se non al sostanziale fallimento della logica e della ragione e alla conseguente afasia di Serafino, fagocitato dalla macchina e dalla nuova società industrializzata, dove predominano l’instabilità, la frantumazione dell’io e il relativismo di ogni giudizio. L’assassinio appena compiuto, che potrà essere riprodotto innumerevoli volte dalla pellicola, è «il colpo di grazia per l’operatore, sconvolto e reso muto dalla preveggenza del suo rappresentare»: Ah, che dovesse toccarmi di dare in pasto anche materialmente la vita d’un uomo a una delle tante macchine dall’uomo inventate per sua delizia, non avrei supposto. La vita, che questa macchina s’è divorata, era naturalmente quale poteva essere in un tempo come questo, tempo di macchine […].
La «vittoria incontestata della ratio», testimoniata dalla resa alla giustizia del colpevole e dalla presunta neutralità ideologica del narratore, lascia dunque il posto a una negazione di conoscenza, elemento estraneo al giallo classico. Dai Quaderni non emerge una struttura sociale d’ordine: la chiusura del modello poliziesco canonico viene negata allotropicamente dalla struttura aperta e da un finale non concluso. Di fatto, in questo e in altri romanzi di Pirandello, «risulta innalzata al quadrato e semantizzata in modo isolato una casualità assoluta come spinta disgregante e destabilizzante». Il nodo dell’intreccio giunge qui ad una soluzione che resta sospesa, connotandosi di una significatività multipla che va ricondotta a una negatività propria dell’explicit tragico:
Girare, ho girato. Ho mantenuto la parola: fino all’ultimo. Ma la vendetta che ho voluto compiere dell’obbligo che m’è fatto, come servitore d’un macchina, di dare in pasto a questa macchina la vita, sul più bello la vita ha voluto ritorcerla contro di me. […] Come operatore, io sono ora, veramente perfetto.
La stessa espressione «Attenti, si gira…» con cui terminano le note di Serafino, profilando l’inizio di una nuova azione sulla scena, conferma la struttura aperta dei Quaderni.
Come afferma Debenedetti, «la vicenda è rimasta disponibile fino all’ultimo, poi si è chiusa. Ma non si sono chiusi i personaggi: le loro ragioni mutevoli non accettano una spiegazione a senso unico». La detection allora non opera tanto nella direzione di svelamento di un evento delittuoso, dello scioglimento di un mistero, quanto in una prospettiva psicologica interna al personaggio tesa a rivelare la visione dell’autore e l’operazione letteraria sottostante, sicché enigma poliziesco ed enigma esistenziale si intersecano, aprendo un livello di significazione ulteriore. Il delitto, infatti, “si risolve” con la penalizzazione del protagonista, che si priva dell’uso della parola. La morte registrata impassibilmente dal «ragno nero» (la macchina da presa) di Serafino, rende sì l’operatore muto per il trauma, ma lo porta alla consapevolezza di come anche la realtà sia finzione, riconoscendovi una stratificazione di ruoli e di maschere: Il dramma di Serafino è di dover registrare con impassibilità […] dei pezzi di vita stupidamente congegnati per fare un racconto o un dramma cinematografico, tremendamente falso, astratto, ignaro della vera vita e di ciò che sono nella realtà gli esseri umani che vi intervengono come attori.
Il suo mutismo finale si configura perciò come punizione ma, allo stesso tempo, come salvezza, ovvero come rinuncia all’autoinganno, al “superfluo” delle forme imposte in nome della totale impassibilità:
Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m’ha reso così – come il tempo vuole – perfetto.
La scelta di non comunicare è dunque una scelta ragionata che, oltre a convalidare il suo «ruolo di servo provvisorio e accessorio» della macchina, nasce dall’aver compreso come la vita non sia altro che un’enorme pupazzata, tenendo in conto che la rinuncia al mondo degli istinti e dei sentimenti comporta però una privazione di questa stessa vita.