
Istinto irrazionale, pulsione di vita, incontro tribale
di Cinzia Agrizzi
Anche se eliminiamo la parola, il costume, il proscenio, le quinte, la sala, finché rimangono l’attore e i suoi movimenti, il teatro resta teatro. Vsevolod Mejerchol’d
Difficile dire se il teatro sia più parola o azione. Quel che è certo è che in scena, a dare forma al logos, a vivificare un testo, è il corpo dell’attore, con i suoi limiti, le sue storture, la sua ambivalenza. Perché il corpo è un mediatore, è un linguaggio non verbale e, come tale, “significa”: racconta storie, veicola emozioni, incarna ruoli. Se l’uomo fa esperienza del mondo attraverso il corpo, grazie al quale entra in relazione con l’ambiente e con “l’altro”, l’attore calca il palco con la sua massa fisica, con il movimento, con l’affanno del respiro: anche la staticità, lo stare immobili in scena, richiede una immensa dose di energia e fatica. Il corpo è, infatti, un utensile, “il primo e il più naturale strumento dell’uomo […] oggetto tecnico e nello stesso tempo mezzo tecnico”.
L’attore, attraverso il corpo, sembra così fondere al meglio l’antitesi nietzscheana tra apollineo e dionisiaco. Da un lato, egli manovra la materia fisica con consapevolezza, misura ed eleganza: ogni passo è pensato e razionale, la postura e lo sguardo sono studiati e rigidamente controllati, il respiro è sapientemente gestito dal diaframma. Un movimento scoordinato, un gesto che non rispecchia l’intenzione del testo, una posizione poco armonica e finta possono tradire l’incanto. Dall’altro, intervengono il caos e l’istinto: l’attore, preso da una sorta di rapimento estatico, è governato dallo spirito caotico e disordinato del dionisiaco, legato all’ebbrezza, alla forza vitale, al pathos. A rappresentare questa sorta di fusione primordiale con il “Tutto”, propria anzitutto della ritualità mitica, fu in origine il coro del teatro greco: esso, attraverso il canto e la danza quali funzioni specifiche, si faceva portavoce dei valori della collettività, esaltando al massimo l’azione drammatica. Pensiamo al coro delle Baccanti (407 – 406 a.C.), le donne di Tebe in preda all’eccitazione sfrenata che si muovono come un corpo unico, irrazionale, travolgente e primitivo. Un corpo Il corpo dell’attore che, a conferma della sua dimensione socioculturale, ripercorre pulsioni ataviche, la cui connotazione simbolica e narrativa è propria anche delle danze di molte tribù indigene.
Le radici dionisiache, magiche e quindi religiose del teatro, soppresse dalla tradizione borghese, riacquistano un forte valore e significato in particolare nel teatro di ricerca novecentesco, proprio grazie alla presenza preponderante del corpo: con la “Biomeccanica” di Mejerchol’d si mira all’allenamento psicofisico dell’attore, la cui centralità supera quella del testo. Il training attoriale, di cui fa parte l’improvvisazione, è fondamentale e preparatorio alla recitazione, al fine di valorizzare la corporeità in opposizione al vecchio teatro di parola.
Dagli happening newyorkesi degli anni Cinquanta al Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck al teatro povero di Jerzy Grotowski e di Eugenio Barba, il teatro comincia a uscire all’aperto, in luoghi alternativi, nelle cantine, nelle piazze e sulle strade, cercando il contatto diretto con il pubblico. Si fa così strada l’equazione arte-vita, che spoglia il teatro non solo dal suo essere un prodotto a uso e consumo dello svago di pochi ma anche dal rigoroso orpello della parola, a favore del corporeo e del gestuale, della presenza viva dell’attore e della sua relazione con lo spettatore, cosicché quest’ultimo “possa sentire il suo respiro e percepire il suo sudore”1, al di là della barriera che separa palcoscenico e platea. Il teatro, infatti, è per Grotowski (come già per Stanislavskij) non solo lavoro sul personaggio, quanto lavoro spirituale e fisico dell’attore su di sé, idea che il regista
polacco ha portato avanti con la sua lunga serie di esperimenti parateatrali.
La realtà del corpo attorico, dunque, si impone al centro della scena come mezzo comunicativo straordinario e, in questo percorso, ad aiutarlo è la danza. “Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti, ma ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che cosa fare. A questo punto comincia la danza”, afferma Pina Bausch, la cui essenza è magicamente ritratta nel film di Wim Wenders del 2011. La coreografa e ballerina tedesca, che ha lavorato prevalentemente con danzatori-attori, ricorda per l’appunto che le finalità espressive e narrative di un corpo sono infinite e che “solo un danzatore sa cosa significa essere sfinito fisicamente, esausto, ed esausti si è più naturali”. Il suo “Tanztheater” (teatrodanza) affonda le radici nella danza espressionista tedesca degli anni Venti e Trenta e ridefinisce il linguaggio teatrale degli anni Settanta e Ottanta: proprio attraverso la riconquista del linguaggio del corpo, il teatro si libera dai paletti della tradizione e dalle maglie conformistiche che lo delimitavano, scardinando l’univoco potere della parola nella rappresentazione di emozioni e paure umane, come avviene nel più noto tra gli spettacoli dell’artista tedesca, il poetico Cafè Müller (1978). Alla riscoperta del coro si lega quindi la ricerca di un senso di ritualità che invita alla partecipazione comunitaria, pensiamo anche al teatro fisico e visivo del Théâtre du Soleil e dei DV8 Physical Theatre di Lloyd Newson: il corpo è ancora il mezzo principale per dialogare e riferire il proprio pensiero politico ed etico, a ribadire, di nuovo, che il teatro non è solo messa in scena di un testo drammatico ma anche arte della fisicità e del movimento e, attraverso gli intrecci di corpi danzanti, fortifica il valore dell’identità collettiva.