
Il linguaggio della malattia
di Eugenio Radin
“Per me, all’inizio c’è il corpo. È ciò che siamo, ciò che abbiamo. Siamo tutti come degli attori che
si agitano sulla scena della vita e la prima cosa che abbiamo sono i nostri corpi fisici, la nostra esistenza fisica. Nei miei film il corpo è sempre al centro. Gli giro attorno come fa un pianeta col sole. Non me ne allontano mai. E se ciò accade, più me ne allontano, meno mi sento sicuro di me. Come se diminuisse la gravità.”
Sembrerebbe paradossale, dopo una tale dichiarazione, la scelta compiuta dal ventitreenne canadese David Cronenberg nel lontano 1966 quando, messo di fronte all’interiore necessità di esternare le proprie pulsioni creative, opta per il cinema come strumento per esprimerle: ovvero proprio per il mezzo artistico più impalpabile, incorporeo e illusorio nella sua capacità di generare immagini. È interessante in effetti, per un cineasta così ossessionato dal tema della corporeità, l’immersione in quella pratica che, come sosteneva Jacques Derrida, pianifica il mascheramento dell’assenza di qualsivoglia materia reale, nascondendo l’inganno di quelle ombre cui però si regala, per un momento, un’impressione di realtà.
Ma il maneggiamento di quella solida illusione è sufficiente, al talentuoso regista, per insinuarsi nelle viscere della società, per diagnosticarne i mali e infine per consegnarli alla coscienza dello spettatore metaforizzandoli in escrescenze cancerogene, batteri sanguinolenti e infezioni parassitarie: il cinema diventa allora “l’unico linguaggio capace di penetrare dentro la patologia di un mondo contagiato da un virus che nessun altro medium riesce a comprendere e a visualizzare. […] se l’immagine fissa produce un’illusione di salute, l’immagine cinematografica in movimento capta ed evidenzia invece la patologia. Fin dall’inizio il cinema è per Cronenberg il linguaggio della malattia”. Il regista di Toronto utilizza principalmente (e in tal modo contribuisce a delineare) il genere del Body-Horror per analizzare e denunciare i vizi malati del proprio tempo: la fiducia incrollabile nel progresso scientifico viene quanto meno problematizzata in pellicole ormai divenute cult come La mosca (The Fly, 1986) o Inseparabili (Dead Ringers, 1988); l’alterazione della percezione umana operata da media vecchi e nuovi è al centro di opere quali Il pasto nudo (Naked Lunch, 1991), Videodrome (1983) o eXistenZ (1999); mentre altre volte è la sessualità perversa l’organo malato da operare tramite questa chirurgia cinematografica – ne Il demone sotto la pelle (Shivers, 1975) o ancor meglio in Crash (1995). In generale, Cronenberg si pone dunque in direzione contraria rispetto al positivismo progressista e ai colori sgargianti e saturi che in quegli anni dominavano la produzione hollywoodiana, scegliendo invece di mostrare il putrido e il marcio che il sistema nasconde, tramite l’utilizzo di scenografie sporche e diroccate, una sostanziale componente splatter e soprattutto tramite l’elemento mutante, che è lo stesso cineasta a definire come un riferimento centrale della propria filmografia: “In tutta la mia opera ricorre il tema della mutazione. Che è poi il tema dell’identità, della sua fragilità”. La mutazione, spannung del cinema cronenberghiano, è il momento in cui la fede nelle proprie previsioni crolla, l’evento in luogo al quale avviene la caotica presa di coscienza che la realtà è diversa dalle nostre previsioni su di essa: ciò rappresenta dunque il passo centrale nella percezione, da parte dello spettatore, della fallibilità delle proprie certezze.
Ma è l’utilizzo di una fisicità malata e decadente, quale strumento di critica nei confronti di aspetti sociali e psicologici, a essere una trovata per se stessa controcorrente. Questo aspetto diventa evidente se si considera quanto alcuni studiosi della società del tempo, tra cui spicca la figura di Roland Barthes, scrivevano nell’82: “Assistiamo a una sorta di reviviscenza di questo problema della sacralità del corpo in aspetti assolutamente laici, contemporanei della nostra vita: tutto quel che riguarda la cultura riflessa del corpo, come le ginnastiche, i tentativi di yoga o di educazione del corpo che agiscono in qualche modo dall’interno; è tutto ciò per cui ci raccomandano, nello sport per esempio, di pensare al nostro corpo e non di limitarci a esercitarlo; vedo in questo una sorta di versione laica di un pensiero religioso”. Ciò che il semiologo francese presagisce è una sorta di mitizzazione della corporeità operata dalla contemporaneità, in cui la sanità, la bellezza e la prestanza fisica divengono valori fondamentali in cui credere e nei quali impegnare i propri sforzi.
Ancora più provocatoria diventa allora la visione di Cronenberg, in cui il disfacimento e l’alterazione delle carni non sono soltanto il modo per metaforizzare una deriva psichico-sociale, ma rappresentano la dissacrazione di uno dei totem stessi di questa nuova società, in cui l’apparire acquista sempre maggiore importanza rispetto all’essere.
Infine, alcune opere del regista, come il già citato Videodrome (capolavoro e summa della filmografia cronenberghiana), seppero profetizzare le drammatiche trasformazioni sociali a cui i nuovi strumenti di comunicazione di massa (in primis la televisione) avrebbero condotto, trasfigurando in sostanza la nozione di corporeità e aprendola al livello della virtualità. Il risultato è una visione sempre pessimistica e negativa ma che, riletta oggi, sconcerta per la sua agghiacciante verosimiglianza: “La lotta per il possesso delle menti, in America, dovrà essere combattuta in una videoarena, col videodrome. Lo schermo televisivo, ormai, è il vero unico occhio dell’uomo. Ne consegue che lo schermo televisivo fa ormai parte della struttura fisica del cervello umano. Ne consegue che quello che appare sul nostro schermo televisivo emerge come una cruda esperienza per noi che guardiamo. Ne consegue che la televisione è realtà e che la realtà è meno della televisione”.