
Olbers, Keplero e Poe: Il paradosso della notte oscura
di Matteo Pernini
Il fanciullo che, levati gli occhi a un terso cielo notturno, chiedesse ai genitori delucidazioni sulla natura di quel buio, ignorerebbe forse di ripetere un quesito che non mancò di eccitare l’immaginazione di Johannes Kepler, Edmund Halley ed Edgar Allan Poe. Non è raro, in effetti, che i medesimi interrogativi che turbano i sonni delle menti più eccelse, inquietino pure il nostro giudizio, qualora ci si presentino in un baleno di lucidità; si tratta unicamente di dar forma ai problemi nel modo corretto.
È attualmente in corso, presso l’Ente Spaziale Europeo (ESA), un progetto intitolato Laser Interferometer Space Antenna (LISA), che nel 2034 prevede la messa in orbita attorno al Sole di tre satelliti, il cui obiettivo sarà la rilevazione delle onde gravitazionali, così da avvalorare le più recenti tesi di quella branca della Fisica che indaga la Gravità Quantistica a Loop. Pur non trattandosi di un dilemma in grado di affliggere la nostra quotidianità, esso è, in fondo, il precipitato di secoli di ipotesi, fantasie ed esperimenti attorno alla questione: perché gli oggetti cadono verso il basso? Una domanda che non può non aver prima o poi acceso la fantasia di ognuno. Sebbene il nucleo della questione si sia, nel corso del tempo, chiarito nelle sue coordinate fondamentali, sino a prodursi nella forma suddetta di un problema quantistico, è un fatto che non vi sia ancora una risposta certa sui modi e le origini dei fenomeni gravitazionali.
Come si vede, è spesso dalle incognite più ingenue che discendono a cascata gli argomenti più complessi. Senza, per ciò, indulgere in panegirici della stolidità o negare che si diano mai domande ottuse, è pur vero che l’ingenuità rimproverata a taluni quesiti deriva di frequente da una cattiva esposizione degli stessi più che da un cattivo contenuto. Al fanciullo che in incipit si domandava perché il cielo notturno sia così scuro a fronte di quello diurno non risponderemo invocando l’assenza del Sole – ché, anzi, gli ingenui saremmo noi – ma racconteremo l’avventura di un paradosso, la cui prima intuizione, seppure indiretta, risale alla Topografia Cristiana del mercante e filosofo siriaco Costantino di Antiochia, che nel suo trattato di cosmologia, la cui più antica edizione è una copia del IX secolo, scrisse: «La volta cristallina del Cielo sopporta il calore del Sole, della Luna e di un infinito numero di stelle, altrimenti essa sarebbe piena di fuoco e potrebbe sciogliersi o incendiarsi».
Sebbene già nelle parole dell’antico si riscontri una confusa formulazione di quello che più avanti sarebbe divenuto un problema scientifico, vorremmo seguire la ricognizione storica operata da Edward Robert Harrison nel suo Darkness at Night: A Riddle of the Universe (1987) e assegnare all’astronomo copernicano Thomas Digges, nel XVI secolo, la prima, consapevole enunciazione del dilemma della notte oscura.
Pochi anni più avanti, Keplero, reduce dalla lettura del Sidereus Nuncius (1609) di Galileo Galilei, scrisse al matematico pisano la seguente nota: «Voi non esitate ad affermare che esistono, visibili, più di mille stelle. Quante più esse sono, e quanto più ammassate, tanto più forte diventa l’argomento contro un universo infinito, esposto nel mio libro Astronomia Nova».
Si potrebbe, a una prima lettura, rimanere smarriti; cosa mai avrebbe a che fare l’infinitezza dell’universo col numero delle sue stelle, ed entrambi col problema della notte oscura? Per comprenderlo, guardiamo alla formulazione del problema, che diede, nel XIX, secolo un medico tedesco: Heinrich Wilhelm Olbers. Un universo che rispetti il Principio Cosmologico – che sia, cioè, omogeneo e in cui non si diano posizioni privilegiate – mostrerebbe infinite stelle ugualmente distribuite in uno spazio infinito e dovrebbe, dunque, in ogni sua parte risplendere di luce.
Un facile esercizio matematico può convincerci di questa conclusione. Scegliamo un punto qualsiasi nel cosmo e ivi poniamoci come osservatori, facendone il centro di una serie di immaginari gusci sferici di spessore pari a 1 al (anno luce) e tali da toccare le regioni più remote dello spazio. Prendiamo, ora, un guscio a distanza x dal nostro punto di osservazione; esso conterrà un certo numero N di stelle, omogeneamente ripartite.
Avendo premesso il Principio Cosmologico, la densità di stelle dovrà essere la stessa in ogni parte dell’universo; essendo, inoltre, la superficie di una sfera proporzionale al quadrato del suo raggio, in un guscio a distanza doppia (2x) rispetto al primo avremo quattro volte (4N) il numero di stelle originario. Poiché, infine, l’intensità luminosa è inversamente proporzionale al quadrato della distanza, la luminosità di ciascuna stella rispetto al nostro punto di osservazione sarà pari a 1/4 della luminosità delle stelle nel primo guscio. Concludiamo, allora, che l’intensità luminosa totale ricevuta dal guscio a distanza x sia pari a quella proveniente dal guscio a distanza 2x ed estendendo il ragionamento agli infiniti gusci dell’infinito universo postulato, finiremo con l’ammettere una perenne, accecante luminosità. Che ciò non collimi con la nostra esperienza è appunto il nucleo del Paradosso di Olbers.
Risulterà, ora, più chiara l’obiezione di Keplero, che, volendo difendere la propria intuizione di un universo finito, non esita a concludere che l’unica soluzione evidente al paradosso di un’abbagliante luminescenza sia un muro di oscurità a serrare le periferie dello spazio. Curiosamente il primo a cogliere le ricadute dell’ipotesi di finitezza sul Paradosso di Olbers fu non un cosmologo, ma un poeta, il medesimo che svelò in un lungo articolo il mistero di arie Roget, che illuminò con lucido raziocinio l’incubo della Rue Morgue, che ci ammise, tra gatti neri e cuori rivelatori, alle ossessioni di mille psichi alterate: Edgar Allan Poe.
Rielaborando in un prose poem dal titolo Eureka (1848) il testo discusso in una conferenza di cosmologia a New York, Poe scrisse: Se la successione delle stelle fosse infinita, lo sfondo del cielo ci presenterebbe una luminosità uniforme come quella esposta dalla Galassia, poiché non ci sarebbe assolutamente alcun punto, in tutto questo sfondo, privo di stelle. L’unico modo per comprendere, in una tale condizione, i vuoti che il nostro telescopio individua in ogni direzione, è quello di supporre che la distanza dello sfondo invisibile sia così immensa che mai nessun raggio abbia finora potuto giungere sino a noi.
L’intuizione è sorprendente: propagandosi, la radiazione luminosa, con velocità altissima, ma finita, ed essendo, altresì, l’universo smisurato, pur anch’esso finito, gran parte dei raggi luminosi scagliati dalle stelle nel vuoto cosmico non ha ancora avuto il tempo di raggiungerci; a ciò sarebbe dovuto il buio che ci stringe.
Per quanto ammirevole, questo risultato è tutt’altro che definitivo. Dalla metà del XIX secolo, la nostra nozione del cosmo è andata progredendo in un modo che nessun astronomo avrebbe potuto sognare: Albert Einstein ha concepito uno spazio flesso per effetto delle masse, Georges Lemaître ha costruito il modello di un cosmo finito e in continua espansione, Edwin Hubble ha legato, in proporzione diretta, la velocità di detta dilatazione alle distanze dei corpi celesti. In questa rivoluzione concettuale l’ipotesi di Keplero e Poe appare, oggi, più incerta di quanto non fosse a inizio secolo, sopravanzata dalle considerazioni di Hermann Bondi, che lega l’oscurità del cielo al suddetto moto di espansione; di Edward Harrison, che la attribuisce all’insufficiente energia prodotta dalle stelle; di Carl Charlier, per il quale la distanza tra gruppi di stelle cresce con l’aumentare del loro numero d’ordine.
Quale sia l’argomentazione principe è difficile a dirsi; non stentiamo a credere che più d’una concorra alla risoluzione di un paradosso, la cui natura era tale solo per effetto di errate premesse. Diversi secoli son dovuti trascorrere prima che potessimo porci la domanda in forma corretta.