Śiva e la metanoia

L’immagine di Śiva e l’impulso alla trasformazione

di Chiara Stival

Tra le tante divinità indiane Śiva è una delle principali: assieme a Viṣṇu e Brahmā forma il ternario divino per eccellenza chiamato trimūrti, letteralmente “le tre, tri, immagini del divino, mūrti”. La trimūrti rappresenta tre aspetti di un’unica Divinità suprema o Personalità divina chiamata Īśvara, termine che significa Signore ed è la prima determinazione del Brahman, l’Assoluto. La triade Śiva-Viṣṇu-Brahmā è funzionale a Brahman dal momento che la Personalità divina manifesta il mondo pur rimanendo in sé stessa non manifestata, quindi i tre aspetti di questo Essere universale sono funzioni cosmiche che agiscono nel corso della produzione dell’universo fino alla sua dissoluzione, partecipano a tutte le trasformazioni dei mondi e di ogni essere manifestato. Mitologicamente e teologicamente tali funzioni sono considerate delle divinità. La trimūrti è dunque la sintesi della manifestazione dell’universo e sta all’origine di una serie di gerarchie divine, sempre più numerose e meno potenti, che costituiscono un insieme di indefiniti mondi divini chiamato devaloka.

Brahmā è il creatore, il fìat iniziale che dà origine a un mondo o a un individuo; è principio di sviluppo di ciò che è “in potenza” e deve diventare “effettivo”. Viṣṇu è il principio di espansione e conservazione, il suo nome deriva dalla radice verbale viś, pervadere, a indicare la sua capacità di sostenere l’universo e di garantirne l’equilibrio. Talvolta egli interviene direttamente nel mondo umano, assumendo un corpo e compiendo delle discese, note come avatāra, al fine di ristabilire l’ordine. Śiva chiude il processo di manifestazione in quanto principio trasformatore che determina tutte le modificazioni, comprese la morte e la rinascita. Possiamo dire che in questa ciclicità temporale, se Viṣṇu costringe il mondo all’ordine, Śiva getta scompiglio per spingerlo verso il suo totale esaurimento.

Egli assume numerose ipostasi, tra le più importanti e affini alla metamorfosi ricordiamo Naṭarāja, colui che danza il continuo divenire del mondo, Yogeśvara, Signore degli yogin, e Bhairava, Signore dei cimiteri e aspetto terrifico della divinità. Śiva è dunque immagine perfetta di metamorfosi, colui che invita e provoca continue trasformazioni del mondo e nel mondo, ergo nell’essere umano. Più precisamente, Śiva può provocare una vera e propria metanoia: un profondo mutamento nel modo di pensare, di sentire e di vedere il mondo e sé stessi. Le divinità, in India, sono degli strumenti utili per iniziare una via spirituale, sono delle funzioni che riflettono altro e lo mostrano a chi cerca. Tutto, ancor oggi, entra in un processo simbolico a cui si accede a differenti livelli.

Śiva scuote, Śiva provoca, Śiva può dare il primo impulso alla trasformazione perché ogni cambiamento ha origine in un momento ben preciso e il suo per-corso, quel flusso per raggiungere un obiettivo, può essere immediato, una metanoia, o graduale, una metamorfosi. Vale la pena porsi alcune domande: quanto è propenso l’essere umano al cambiamento? Le trasformazioni, quelle profonde e radicali, sono veramente frequenti? A cosa e quanto l’individuo è disposto a rinunciare per diventare altro? Śiva mette immediatamente in evidenza quanto sia anomala e solitaria la via del cambiamento interiore e a mostrarlo sono sia le immagini popolari sia le opere d’arte come le statue che costellano i templi o i bronzi delle dinastie del sud dell’India, esempio di raffinatissima maestria. Per prima cosa dobbiamo considerare che le divinità sono generalmente rappresentate con vesti eleganti, colori luminosi e addobbate di gioielli preziosi, mentre Śiva si presenta quasi nudo, il colore della sua pelle è smunto poiché egli si cosparge il corpo con la cenere che raccoglie nei luoghi in cui si svolge il rito della cremazione, veste solo una pelle di tigre che gli cinge i fianchi, intorno al collo ha un serpente e delle collane dette rudrākṣamālā; ha capelli arruffati da cui spuntano una falce di luna e la Gaṅgā, il fiume celeste sceso tra i suoi capelli per poi scorrere sul suo corpo e portare l’acqua nel mondo come Gange; il tridente è la sua arma; infine, uno dei suoi simboli è il fallo, lo Śivaliṇga, la cui connotazione sessuale si rivolge all’energia maschile e che, piantato su un basamento a forma di vulva, detto yoni e immagine dell’utero femminile, rappresenta il segno dell’unione Śiva-Śakti o del maschile e femminile, i due principi costitutivi dell’universo. Insomma, un demone più che un dio! Ma l’ambito culturale indiano si muove in prospettive completamente differenti da quelle occidentali, il tema della morale non esiste come nemmeno il senso di peccato, l’India considera altre forme di causa-effetto.

Egli è la divinità selvaggia per eccellenza, ha abbandonato qualsiasi tipo di sfarzo, sta al di là dei mondi sfavillanti degli altri Dei, al di là di tutti i piaceri del mondo. Śiva è l’asceta per eccellenza e, proprio per questo, è il signore dello yoga. Vediamo ancora alcune valenze simboliche e indici di tappe nella via della trasformazione del sé. La pelle di tigre, veste della divinità, è il segno del lato selvaggio, della potenza primordiale e denota l’aver intrapreso la strada dello yoga; avere dominato la fiera è l’evidenza di aver acquisito le siddhi, i poteri che vengono attraverso la pratica, ed è per questo che gli yogin, o maestri, a volte sono raffigurati con una tigre accucciata ai loro piedi, viva, oppure seduti, assisi, su una pelle di tigre. Anche le yoginī, entità femminili che si presentano come vere e proprie espressioni del divino, sono caratterizzate dalla frequentazione di animali feroci e dallo sviluppo di poteri – tra cui il volo – e una connotazione notturna che allude a promessa di trasformazione. La tigre, animale selvatico per eccellenza, magnetica e sinistra, è l’energia primordiale, la forza ancestrale, l’energia assopita e risvegliata attraverso la pratica dello yoga; l’energia che brucia tutto, che trasforma, e che perciò non può essere lasciata libera ma deve essere controllata, altrimenti la sua potenza distruggerà. Se non si risveglia quell’energia non si inizia il cammino, ma se si libera e non si sa gestire porterà alla rovina.

Il tridente, altro attributo di Śiva, è uno dei simboli più elevati del mondo indiano: le tre punte indicano le tre condizioni di ātman: lo stato di veglia, lo stato di sogno e lo stato di sonno profondo. Quando Śiva impugna il tridente vuole indicare un’altra condizione di ātman detta turīya, letteralmente “quarta”; a differenza delle prime tre non ha nome perché non può avere un nome, è lo stato ultimo che porta alla liberazione e alla realizzazione dell’essere umano, perciò trascende le tre condizioni di ātman e rappresenta lo scopo della metamorfosi ossia andare oltre l’individualità e riconoscere l’identità Ātman-Brahman.

Il serpente, nāga, che la divinità tiene attorno al collo, è collegato alla conoscenza, quella sotterranea e ancestrale, dato che questi rettili vivono in tane, sotto le radici degli alberi o nei termitai abbandonati, dove spesso gli yogin lasciano le loro ciotole colme di latte per abbeverarli, per ingraziarsi il loro potere, la loro conoscenza. I serpenti custodiscono i segreti del passato, il sapere che è andato perduto, il tesoro nascosto, quella conoscenza iniziatica che viene dal gorgo del tempo e che si tramanda dalla catena ininterrotta maestro-discepolo. Dunque la conoscenza-serpente è necessaria per incanalare la potenza-tigre sulla via dello yoga.

Śiva, il dio selvaggio e misterioso, nelle sembianze del Signore dello yoga rappresenta una delle vie che l’uomo può intraprendere per mettere in atto la metanoia che lo condurrà alla beatitudine e alla realizzazione del Sé.

Io sono colui da cui tutto ha origine,

la divinità dimorante nella Beatitudine Suprema.

Io, lo Yogin, danzo eternamente.

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