
di Enrico Losso
Paride contempla la traiettoria dello schizzo di saliva, una parabola perfetta che spicca nel gioco di luci della sala, e constata che non lo perderà mai il vizio di sputacchiare, suo fratello Gianluca, mentre parla alterato.
– Smettila di fare il pagliaccio!
La goccia e il rimbrotto colpiscono il nipote Alberto, mentre la macchia scura di Sangiovese dà il colpo di grazia alla tovaglia di lino bianco.
Paride lo osserva: si è trasformato in un vulcano, pronto ad eruttare ventagli di lapilli pur di far colpo sullo zio. Ha contato le volte in cui si è alzato dalla sedia per dire o mostrare qualcosa. Tredici in mezz’ora.
Nell’ultima ci è andato di mezzo il bicchiere del padre.
Il cameriere magro con il tic si affretta a tamponare e mentre armeggia con un tovagliolo torce velocemente il collo e socchiude il lato destro della bocca.
Paride fa l’occhiolino al nipote e mima il ruggito di un leone.
Alberto scoppia in una risata che attira uno scappellotto immediato.
Di rimando Gaia, la sorellina, strilla, come se fosse stata lei ad essere colpita: – Il papà picchia!
Ornella zittisce la figlia, quasi le tappa la bocca con una mano. Vorrebbe sparire da là – Paride l’ha capito bene, che lei non sopporta l’adorazione che suo marito, metalmeccanico, ha per lui, pubblico ministero – lontano da quel ristorante del centro dove anche le formaggere sono pezzi da design e nel menù ci sono solo trionfi e profumi.
Paride riempie di nuovo il bicchiere col vino rimasto e non può fare a meno di ricordare suo fratello Gianluca a otto anni – la stessa età che ha Alberto adesso – gambe fini e muso da sfida, mentre si diverte un mondo, in spiaggia, a scavare con precisione da chirurgo una buca dietro le sdraio dei genitori, sempre più grande e profonda, finché la sabbia cede e le gambe delle sdraio affondano di schianto. Sorride a fior di labbra, Paride, di fronte all’immagine del padre ruzzolato a terra con il suo amato Gazzettino.
Gianluca si accorge di essere osservato. Pensa di avere una ciocca fuori posto o una macchia di sugo sulla guancia.
Paride allarga le braccia, come a dire “non ci posso fare niente”, il sorriso gorgoglia in una risata e contagia tutti, per primo Gianluca che dà una piccola gomitata alla moglie:
– Che sagoma, il mio fratellino!
Lei si mordicchia l’interno della guancia, ma le labbra le sfuggono, si distendono fino a scoprire i denti perfetti. Gaia sbircia perplessa la mamma, poi il padre, poi il fratello. Si ritrova a sghignazzare, nella maniera esagerata dei bambini, senza capirne il motivo.
Alberto corre ad abbracciare lo zio. Vorrebbe quasi sedersi sulle sue ginocchia, come faceva quando era più piccolo per sentire i suoi racconti fantastici su guardie e ladri. Paride gli accarezza il cespuglio di capelli chiari. Lui gli dice:
– Voglio essere come te da grande!
Il cameriere è tornato al tavolo per portare un’altra bottiglia e s’incaglia in questo siparietto familiare. Abbozza, sorride, poi torce velocemente il collo e socchiude il lato destro della bocca.
Paride si asciuga una lacrima che gli è colata fino al lato della bocca. Fa un gesto vago con la mano, ha un altro scoppio di risa, dice fra i singhiozzi:
– Meglio se vado in bagno o mi piscio addosso.
Si alza traballando, fa due passi, poi si gira di colpo e finge di ruggire. Un altro scoppio di risate.
Si avvia verso il bagno.
Oltre la porta sente ancora il rumore delle risate dei nipoti, braci che i genitori tentano di spegnere.
Paride non ride più, invece, il viso gli è crollato giù, serio, appena ha varcato la soglia, le labbra non sono più stese, gli zigomi sono scesi. Si sciacqua la faccia, umidi rimangono i lineamenti veri, annoiati da quella situazione. Ha poche certezze, rimugina Paride, e una di queste è che morirebbe se dovesse convivere in quel quadretto più a lungo dell’arco temporale di una cena.
Infila l’indice e il medio nel taschino interno della giacca.
Non ci trova nulla all’interno.
Percorre invano con le dita il perimetro interno del taschino. Mentre le estrae sente di aver fatto saltare un punto della cucitura. Si palpa le tasche della giacca, poi quelle dei pantaloni.
Era sicuro di averla.
Si passa la lingua all’interno delle guance. Sbuffa dalle narici, soffoca un’imprecazione. Sente un calore intenso diffondersi nel petto. Infila la mani nelle tasche esterne della giacca.
Quello che gli esce dalla gola, anzi, direttamente dal cervello attraverso la gola, è un guaito di sollievo.
C’è la pochette nera in pelle che Gianluca gli ha regalato per il compleanno.
Gli occorrono due tentativi prima di aprire la zip. Ne sfila una bustina trasparente e se la porta davanti agli occhi: in controluce appare una polvere bianca. Tira un lungo sospiro. Sente i muscoli del collo rilassarsi.
Sorride all’immagine allo specchio.
Pulisce con due strappi di carta igienica la mensola di legno che c’è sotto. Lacera con i denti la bustina e ne versa il contenuto in tre strisce parallele. Le tritura con gesti veloci e precisi utilizzando una lametta da barba. Si gira e lancia un’occhiata alla serratura della porta. Prende dal portafoglio una banconota da cinquanta euro e la arrotola.
La prima striscia scompare in un pochi istanti.
Paride chiude gli occhi e tira su forte con il naso. Sa che ci vorrà una manciata di minuti prima di sentirsi veramente bene. Si passa il dito sulla narice destra prima di affrontare la seconda striscia. Si piega in avanti e vi appoggia l’orlo del cilindretto formato dalla banconota. Solleva gli occhi sullo specchio prima di partire.
In quell’attimo, la porta del bagno alle sue spalle si apre. Anche se doveva essere chiusa, era certo che fosse chiusa, si ricordava di averla chiusa con la chiave, quella si apre.
E, sulla superficie dello specchio, appare il sorriso di Alberto, una palizzata allegra di denti interrotta da una fessura al posto di un canino.
– Zio Paride!
Le parole, già
caricate, esplodono come due spari in un bosco deserto.
Paride
si alza di scatto, ma non si gira.
Una goccia di sangue gli cade dalla narice destra e centra la banconota scivolata nel lavandino.
Alle sue spalle il nipote non dice altro.
Si passa la lingua sul labbro superiore, stringe con la mano il dispenser di sapone liquido. Gli vengono in mente un paio di frasi per dare una verniciata di bianco alla situazione, ma le scarta subito. Ora che è ritto in piedi non riesce a vedere nell’immagine riflessa se Alberto sia ancora alle sue spalle. Gli appaiono soltanto i suoi due occhi a fessura e una riga rossa che è arrivata al mento.
Si gira, più che altro perché – ed è una situazione veramente insolita per lui – non sa che altro fare.
Oltre la porta socchiusa, non c’è nessuno.
Paride osserva il dispenser che ha ancora in mano, si rende conto solo allora di averlo ancora in mano. Lo scaglia contro il muro. Ansima, le dita hanno iniziato a tremargli. Si risciacqua il viso, sputa un grumo di saliva e sangue, si tampona le narici finché non esce più nulla. Raccoglie con un fazzoletto la polvere sul mobile, ne fa un fagottino e la getta nel water.
Nell’antibagno cerca di raccogliere le idee: quanto ha visto, quanto può capire un bambino di otto anni. Ripensa a quando aveva lui quell’età, ma gli viene in mente solo una canzone stupida che gli faceva sentire in continuazione suo fratello.
Raggiunge il tavolo.
Ci regna la calma, i bambini mangiano composti e i genitori si stanno sussurrando qualcosa.
Paride si siede e li osserva, a uno a uno. La nipote rimane china sul piatto a lottare con un’aletta di pollo, Gianluca e Ornella gli lanciano la stessa espressione mezza divertita e mezza interrogativa. Alberto gli sorride e basta.
Paride è pronto a sostenere la tesi di una medicina che è necessario assumere in un modo particolare.
Ma Alberto gli sorride e basta, senza pronunciare più una parola.
E fino al dolce non fa che avere stampato addosso quel sorriso, che Paride non sa come interpretare.
Al momento dei saluti, mentre suo fratello e la moglie stanno vestendo la piccola, Paride si trova di fronte a Alberto. Prova a buttare là una frase, gliene esce una piuttosto stupida:
– Prima dovevi fare anche tu la pipì?
Il nipote fa per dire qualcosa, poi sembra ripensarci e scuote la testa.
Nel parcheggio, Gianluca abbraccia due volte il fratello:
– Non lavorare troppo.
La nipotina gli fa baciare anche la bambola, Ornella cerca nella borsetta le chiavi dell’auto.
Paride si siede al volante della sua Porsche e guarda d’istinto nello specchietto retrovisore. Stanno salendo tutti nella station wagon di una vita. Alberto si volta, incrocia il suo sguardo per un istante. Poi si rigira e, prima di salire, sputa a terra.
Paride schiude le labbra, si passa la mano aperta dal naso fino al mento. Rimane a fissare lo specchietto finché l’auto non è sparita.
Poi appoggia la mano su un fascicolo che giace sul sedile del passeggero accanto a lui. Lo stava studiando prima di correre al ristorante. Sopra ci sono scritti con un pennarello il nome e il cognome di un ventenne. Tossico, morto di overdose.
Il lavoro è una voce di Sirena che sovrasta ogni eco.