
di Fabio Girardello
L’uomo nell’ombra di Annarosa Tonin è un testo affascinante e ponderoso.
È affascinante perché impiega saperi specifici (storiografia dell’arte e della letteratura, iconologia, sociologia…) facendoli interagire quasi secondo una struttura neurale. Eppure questi saperi non sono mai ostentati; anzi, la scrittura è sempre attenta a non privarsi del modus e della grazia, che sono cifre della prosa dell’autrice.
È ponderoso perchéil centinaio di pagine di cui si compone pesano, dal momento che Tonin ha soppesato ogni parola; l’assenza di ridondanza fa sì che il lettore non possa “buttar via” o ingurgitare in fretta neppure una frase. Ne è derivato un libretto di cento pagine che stimola un’ulteriorità di pensiero, invita ad essere annotato dal lettore.
È un’operazione in apparenza leggera che nasconde una grande complessità: in Premessa, Tonin scrive chesi tratta di «quattordici viaggi nella forma prevalente del saggio e uno in forma di racconto». Quattordici viaggi alla scoperta di diciassette opere pittoriche di artisti notissimi e meno noti al pubblico medio; senza contare che le opere analizzate non sempre sono note in assoluto.
Perché «viaggi»? Perché i testi pittorici selezionati non prevedono soltanto un esercizio di analisi tecnica, ma sono – dice Tonin – il punto di arrivo e di partenza di una peregrinazione che permette di scoprire relazioni inaspettate fra luoghi e persone, ma anche fra idee e fatti; non solo fra idee che si sono effettivamente diffuse, non solo fatti che sono accaduti, ma anche «idee che si sarebbero potute diffondere e fatti che sarebbero potuti accadere». Non c’è, dunque, un intento asseverativo, ma un provare e riprovare la bontà di un metodo d’indagine. E l’indagine – chi ama il poliziesco lo sa perfettamente – prevede un’esposizione da parte del detective, un rischio, un azzardo.
In questo senso quelli contenuti ne L’uomo nell’ombra sono saggi nel senso originario del termine, perché il saggio non mira a un’esaustività compulsiva. Questo statuto di genere è perfettamente chiaro a quel Michel de Montaigne che è l’inventore stesso del saggio, in primis come forma della scrittura.
Il testo di Tonin mette insieme l’apprensione certosina, mirante alla correttezza del dato e alla sostenibilità di ciascuna asserzione e la freschezza dell’assaggio, il gusto del non esaustivo, il piacere del rischiare interpretativo, il disinteresse per la confezione accademica e, non da ultimo, il gusto dell’informare e meditare raccontando. E il raccontare prevede anche quella distrazione, gradevolissima al lettore evoluto (che ama la grana della scrittura più che il plot), che è la digressione.
Gli autori e pertanto i dipinti presi in considerazione sono estremamente eterogenei, soprattutto sul piano temporale: si va da Veronese a Egon Schiele, da Picasso a Van Dyck. Cosa significa? Annarosa Tonin propone per suo e nostro piacere una sua pinacoteca ideale o ha urgenza di interrogare i dipinti riguardo a ben definiti problemi? Forse un po’ questo e un po’ quello. Del resto, chi inventa un percorso parla di ciò che gli sta a cuore; ma credo di poter dire che, ancora una volta, la passione per il mettere assieme gli indizi per fornire risposte plausibili sia prevalente.
Se le quattordici trattazioni godono della libertà tipica di chi sa narrare, va però detto che la struttura del testo (la sua economia) è estremamente sorvegliata.
Il primo “viaggio” parla di un bambino mai nato: il figlio di Egon Schiele che la moglie Edith non riuscirà a mettere al mondo, perché morirà di febbre spagnola, come Schiele stesso, il quale non avrà neppure il tempo di completare il quadro. Il bambino nel dipinto, che si intitola La famiglia, è il “progetto non avverato”, il simbolo di un’innocenza desiderata.
L’ultimo “viaggio” parla di due bambini, che portano lo stesso nome: uno è Filippo, un bambino di oggi, in carne e ossa, di circa cinque anni, dotato di una straordinaria sensibilità e amore per il disegno; l’altro è Philippe,Il bambino della famiglia Lange,dipinto da Édouard Manet nel 1861. La narrazione parla di un possibile dialogo fra Filippo e Philippe, vivo anch’esso, pur sulla tela, grazie all’immaginazione del bambino reale.
Il libro presenta una struttura circolare; del resto, se Filippo e Philippe è un racconto d’invenzione ispirato dal quadro di Manet, la storia di Egon Schiele e della sua ultima opera segue un andamento molto narrativo; tanto è vero che Tonin instaura un rapporto fra la figura di Schiele e quella del giovane Törless, protagonista del romanzo breve di Robert Musil; un parallelo, fra i molti, fra arte pittorica e letteratura.
Il tema del ritratto di famiglia è uno fra i temi portanti de L’uomo nell’ombra.
Con l’abilità costruttiva che le è propria, Tonin fa seguire alla storia del bambino mai nato di Schiele la storia di due sorelline, figlie del pittore Thomas Gainsborough , Mary e Margareth, con il loro gatto, in realtà appena abbozzato. L’artista, che è uno dei massimi esponenti della nuova pittura borghese che nasce in ambito rococò, ritrarrà varie volte le figlie insieme. Il testo traccia il percorso artistico di Gainsborough ma segue anche il destino delle due figlie. Quello di Mary, per le ragioni che leggerete, si rivelerà tragico.
Anche in questo caso, in poche pagine, trovano spazio il senso dell’opera, la valenza dell’autore e il racconto biografico.
Quando l’attenzione si sposta su Elisabeth Vigée Le Brun che si auto-ritrae con la figlia e, poi, sul doppio Ritratto di Iseppo Da Porto con il figlio Adriano e di Livia Da Porto Thiene con la figlia Porziadi Veronese, sembra che Annarosa Tonin si diverta a offrirci variazioni sul tema famigliare.
In realtà c’è di più, perché, attraverso passaggi quasi impercettibili, tanto sono graduali e precisi, la narrazione passa dal piano privato a quello pubblico. È vero: la Le Brun, anticipatrice dello Stile Impero, si ritrae qui con la figlia in un atteggiamento affettuoso che richiama La Madonna della seggiola di Raffaello; ma Le Brun è pittrice di corte. È la ritrattista ufficiale di Maria Antonietta e, dopo la Rivoluzione, di Carolina Bonaparte, sorella dell’Imperatore. Si apre la tematica del ritratto ufficiale: alla Le Brun è affidato il compito di ritrarre Maria Antonietta, di cui è amica, come una donna semplice e una buona madre, a dispetto delle dicerie che vogliono “l’austriaca” donna dissoluta e oziosa. Annarosa Tonin lo ribadisce: il ritratto ufficiale è propaganda politica. E, soprattutto, se l’ufficialità si esprime attraverso il ritratto famigliare, può essere opportuno giocare la carta della “quotidianità”, saper dosare la posa destinata al pubblico e l’affetto dell’ambientazione domestica. Ecco perché, in Veronese, i due bambini dei ritratti speculari, Porzia e Adriano, sembrano fuoriuscire dalle vesti dei genitori dietro i quali si sono nascosti.
Il doppio ritratto è del 1555; otto anni prima Iseppo da Porto, creato conte palatino da Carlo V, ha subito un processo per eresia perché convertito al calvinismo. Protettore delle arti, amico di Veronese e di Palladio, il conte è eretico in privato e rispettoso della fede dei padri in pubblico. Un uomo, dunque, misurato e accorto. Eppure Veronese sembra, con questo doppio ritratto, ufficiale e domestico insieme, quasi voler rassicurare lo spettatore circa l’uomo-Iseppo, padre di famiglia affettuoso e nobile conscio della sua valenza pubblica.
Non è un caso isolato: Annarosa Tonin coglie – e credo si tratti di una delle intuizioni più felici – la complicità che può instaurarsi fra il ritrattista e chi è ritratto. A proposito del Ritratto di Massimiliano Idi Dürer, l’autrice afferma che l’opera presenta «più di un elemento misterioso, inavvicinabile, che solo l’artista e il suo affascinante committente conoscono.» Il ritrattista “ufficiale” deve sapere ciò che può dire e ciò che no; del resto, ai livelli di cui narra Tonin, va da sé che i ritrattisti prescelti siano fini psicologi. Del resto, Dürer “indaga” più volte l’imperatore che ha desiderato incontrare e ritrarre. Il ritratto è un’effigie pubblica, ma alcuni particolari hanno a che fare con una lettura esoterica a cui Dürer – com’è noto – non è nuovo. Ne è esempio la melograna, che sostituisce il globo crucigero, simbolo inequivocabile del potere, con un simbolo ambiguo, connesso, anche, al regno di Proserpina; o i capelli bianchi, lo sguardo rivolto in basso, la mano che quasi si appoggia all’ipotetica cornice: tutto parla di una malinconia che è foriera di morte (Massimiliano I muore nel 1519, anno del dipinto).
Dürer simpatizza con Massimiliano. Ne coglie i rovelli segreti, li esprime “in codice” e nello stesso tempo li custodisce. È consapevole di conoscere segreti che esprime per chi sa o può cogliere ma che non rivela.
Al contrario, il ritrattista può fingere di assecondare la volontà autocelebrativa del soggetto, e allo stesso tempo consegnare al pubblico la sua lettura “antipatica”: è il caso delRitratto di Filippo II, opera di Sofonisba Anguissola, peraltro prima ritrattista ufficiale di corte di sesso femminile.
Dice Tonin: «Da uno sfondo scuro, che ha la funzione di avvicinare il soggetto ritratto a chi guarda, Sofonisba fa risaltare il volto pallido, cadaverico, del sovrano. La pittrice, impietosa, traccia i contorni di un viso emaciato, privo di reale e pulsante forza e di autorevolezza, il volto di un uomo già sfiancato dalla lotta per preservare i domini spagnoli, ancora prima che le sue sconfitte politiche più cocenti nella seconda metà del Cinquecento sanciscano il fallimento di una politica monocorde: sanguinaria, repressiva, lenta e accentratrice.»L’autrice si sofferma sulle mani del regnante: soprattutto quella che regge il rosario sgranato, simbolo di una politica che persegue il trionfo della Chiesa cattolica sulla protestante come obiettivo prioritario di una strategia del potere che si basa sull’alleanza indissolubile fra Trono e Altare.
Ma non è solo l’iconografia del potere che viene trattata ne L’uomo nell’ombra.
Il ritratto, in apparenza espressione esclusivamente individuale, può invece offrire, metonimicamente, la rappresentazione di un’intera società. Quando, sottotraccia, il ritratto accenna al tema popolare, il pittore affronta prove non meno complesse di quelle che prevede il ritratto “di potere”. Ricordiamolo: la pittura ha originariamente una vocazione ufficiale (potere e religione). La licenza di rappresentare una dimensione umile prende piede a Nord con la rivoluzione borghese dei Fiamminghi e, nei paesi cattolici, con la Riforma cattolica, grazie alle spinte “pauperistiche” di Caravaggio, di Annibale Carracci e dei loro seguaci. Pensiamo agli esiti letterari; a quanto tempo ci è voluto perché il popolo avesse diritto al romanzo.In Spagna c’è il romanzo picaresco. Il suo corrispettivo pittorico moralizzato si può rinvenire in Murillo. I bambini di Murillo non sono piccoli aristocratici in posa: sono poveri che vivono in strada, spesso grazie a espedienti da adulti. Sono piccoli lavoratori gravati di grandi fatiche, talora effigiati assieme agli oggetti delle loro occupazioni. Pauperismo, certo (lo prova la vicinanza di Murillo all’ordine francescano, alla Confraternita della Carità di Siviglia); naturalismo “sociale”, sicuramente. Ma anche vero ritratto, con il suo portato di indagine psicologica; il Bambino con cane sembra guardare alla bambina del quadro a lato, con la sua cesta di frutta che simbolicamente allude alla maturità. Il bambino col cane ha con sé un canestrino che contiene una brocca, che allude a sua volta al corpo femminile. Un interesse, quello del bambino per la coetanea, che oramai non è più asessuato; anche in ragione di un’infanzia socialmente negata.
E poi c’è la rappresentazione di ciò che va oltre l’umile, ovvero dell’emarginato per eccellenza: l’emarginato per auto-emarginazione. Ed ecco altri due quadri a confronto con lo stesso tema: Le bevitrici di assenziodi Degas e di Picasso. Il quadro di Picasso insiste sull’asocialità della sua bevitrice istupidita dall’assenzio. Il quadro di Degas mostra uno scorcio di ambiente: l’ambiente degli alienati che sono pur sempre parte, per quanto marginale e marginalizzata, della società.
Il libro di Tonin si interroga anche su questo: c’è un confine netto che separa il privato dal pubblico? Quanto c’è di privato nell’Assenzio di Degas? Quanto di politico? Non è forse politico il romanzo di Zola L’Assommoir, anche se parla delle dolorose vicende private degli ultimi di Parigi? (Il quadro di Degas è stato dipinto lo stesso anno – il 1875 – in cui appare la prima edizione a stampa de L’Assommoir). Il milieu culturale è lo stesso.
Resta una questione aperta, relativa al titolo del libro. Chi è L’uomo nell’ombra?
Il volume mutua il titolo dal capitolo – viaggio che parla de Le filatrici, ovvero la Favola di Aracne di Diego Velázquez. Decisamente un titolo enigmatico. L’occasione dell’opera: la visita dell’Infanta Maria Teresa di Spagna, figlia di Filippo IV, alla Real Fabbrica di Arazzi di Santa Isabella, a Madrid. Tuttavia la composizione, rispetto all’occasione pubblica della visita, risulta strutturata in termini quasi inconcepibili: in primo piano, infatti, non ci sono l’Infanta e le dame di Corte. Ci sono le filatrici, il mondo popolare e operaio; dietro, in uno spazio assolutamente “altro”, le dame in visita osservano un arazzo sullo sfondo. Tuttavia, insieme alle tre dame, appaiono altre due figure: una, con l’elmo, rappresenta Minerva, mentre la fanciulla intimidita è Aracne.
Si tratta di una lettura moderna del mito ovidiano, che appare spiazzante se non si mette in conto la straordinaria inventività iconografica di Diego Velázquez; il quale non è nuovo a mescolare elementi umili e realistici, simboli, mitologia riveduta e corretta, squadernamenti prospettici. E infatti, secondo le interpretazioni più recenti, Velázquez, partendo dal dato realistico (la fabbrica e le filatrici), associa il lavoro delle operaie della Real Fabbrica al mito di Aracne, trasformata in ragno da Atena, gelosa dell’abilità della fanciulla nel tessere. I piani narrativi si moltiplicano e si complicano: complesso è soprattutto ciò che accade nella sala in cui le dame di corte ammirano l’arazzo appeso sul fondo ma in cui assistono anche allo scontro fra Minerva e Aracne, che ha appena finito di tessere il suo capolavoro, ovvero Il ratto d’Europa, ovvero l’arazzo che le dame di corte ammirano in tempo reale. Il tempo storico, il tempo del lavoro e dell’occasione (la visita dell’Infanta), cortocircuita con la dimensione mitica. Già le filatrici in primo piano alludono alla filatura di Aracne, ma in secondo piano Atena appare “davvero” ad Aracne, fa irruzione nel vissuto e ha le dame di corte come spettatrici. In tal modo un evento parzialmente significativo, come la visita reale alla fabbrica, diventa occasione per una messinscena metateatrale e meta-storica degna del più raffinato surrealismo.
Le filatrici è del 1657. Appena un anno prima, Velázquez aveva dipinto il suo capolavoro, Las Meninas (ovvero “le damigelle d’onore”). L’opera ricorda Le filatrici perché anche qui ritroviamo differenti piani simbolici. In primo piano, l’Infanta Margherita e le damigelle d’onore, i nani di corte e il cane. Dietro, personaggi di corte, più o meno in penombra. Lo specchio dalla grande cornice scura – altra eccezionale invenzione di Velázquez! – racchiude le figure in posa del re Filippo IV e della regina Maria Anna d’Austria. Quadri, specchi, porte aprono ulteriori dimensioni, come ne Le filatrici. L’unica aggiunta vera è il ritratto dello stesso Velázquez mentre dipinge la grande tela che fa da quinta in primissimo piano. È una scena di corte, una scena quotidiana e quasi domestica, una rappresentazione per certi versi ufficiale e per certi versi privata; eppure tutto appare come se fosse un’evocazione ad uso e consumo dell’artista, una sua messinscena.
È Velázquez, alla fine , l’uomo nell’ombra; e con lui tutti i ritrattisti di cui si occupa il volume di Annarosa Tonin. Ne Las Meninas finalmente si rivela, come in un film di Hitchcock, il regista di quella rappresentazione teatrale che è la pittura.
Come ogni regista che si rispetti, l’artista è onnipresente anche negli altri testi pittorici di cui abbiamo parlato; anche se non appare, anche quando si nasconde. Perché è lui a gestire le modalità di quella corrispondenza che lo lega indissolubilmente a chi e a ciò che rappresenta. È lui che dosa la quantità e la qualità di ciò che comunica. E soprattutto di ciò a cui assiste e che desidera rimanga un segreto fra lui, onnisciente nell’ombra, e il committente-attore.