
Alcune note sul filosofo che indicava col dito
di Luca Mauceri
Diversi bibliofili hanno cercato di far comprendere i piaceri del semplice scorrere cataloghi in cerca del libro o dell’autore tanto desiderato. Il puro passare di nomi e titoli, titoli e nomi, prepara il lettore a un viaggio di fantasia, di emozioni, di estri intellettuali, di sorprese mozzafiato.
Un filosofo può sicuramente provare questa ebbrezza ogni volta che gli capiti di consultare la classica raccolta (1903) sui filosofi presocratici di Diels e Kranz. Pagine e pagine di antichissimi personaggi citati e ricordati da altri filosofi, a volte soltanto per una manciata di parole. Nomi mai sentiti, e riportati probabilmente ormai solo in questa raccolta, permettono di viaggiare nella mente e nei pensieri improbabili di questi pensatori d’un altro universo: Xuto, Licone, Seniade, Ideo; chi si celava dietro questa manciata di lettere? Questi personaggi hanno fatto il loro tempo e purtroppo ci è impossibile oggi valutarne il reale spessore. Nulla è sopravvissuto di loro, se non quasi il nome, e questa è buona parte del fascino che subiamo.
Risorge allora una delle domande centrali della filosofia: «Che interesse e che importanza può avere oggi, nell’età della tecnica, la considerazione dei filosofi presocratici?»
Una delle risposte può giungere dal fatto che di alcuni di questi pensatori traiamo considerazioni importantissime circa il loro contributo alla storia del pensiero, come nel caso di Cratilo, filosofo ateniese del V secolo a.C. Di Cratilo non possediamo alcuno scritto e sappiamo qualcosa di lui solamente da poche righe tramandate da Aristotele. Sappiamo grazie a lui che tra i suoi discepoli ebbe niente meno che un giovane Platone, che molto ammirava lui e il pensiero di Eraclito, da cui quello cratileo deriva. Platone darà anche il titolo a un suo dialogo proprio in onore di Cratilo, ma come accade di frequente negli scritti platonici, il personaggio del dialogo e il suo pensiero non corrispondono a quelli originali.
Cratilo rientra in quella schiera di pensatori che oggigiorno sarebbero marchiati come eccentrici o addirittura pazzi, senza che il reale contenuto del suo pensiero – coerentissimo – venga ascoltato. Ma si faccia un passo indietro. Sul trono dei pensatori più importanti di ogni tempo sta certamente Eraclito, noto ancora oggi per la precisione e la solennità con cui ci ha descritto il divenire necessario ed eterno che caratterizza il mondo. «Tutto scorre» si recita ancora di lui. La natura intera e ogni cosa che di essa è parte non sono che un perpetuo fuoco che mai può spegnersi. Questo fuoco è simbolo, elemento chiave, di un essere mai statico e in continuo mutamento. Per questo, secondo i frammenti eraclitei pervenutici, «nello stesso fiume non è possibile entrare due volte». Eppure le estreme conseguenze di quell’espressione ha potuto tragicamente vederle questo a noi ignoto Cratilo. Anche per Cratilo tutto è in moto, in accordo con Eraclito e con l’evidenza empirica dei fatti. Riporta Aristotele che Cratilo non nominava mai alcuna cosa e che si limitava a indicarle col dito, unico modo possibile per poterle afferrare, nominare:
Costui finì col convincersi che non si dovesse neppure parlare e si limitava semplicemente a muovere il dito, rimproverando perfino Eraclito di aver detto che non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume. Cratilo, infatti, pensava che non fosse possibile neppure una volta.
L’incessante fuoco cosmico di tutte le cose non consente di fermare alcuna identità, alcun soggetto che possa fare alcunché come immergersi in un fiume. Infatti, il dito che toccasse l’acqua nel punto P1, sarebbe lo stesso dell’attimo P2? Se tutto diviene, non diviene solo il fiume per un soggetto fermo, che fa da spettatore, ma anche il soggetto stesso in quanto parte della natura e dunque del fuoco diveniente. Se la natura è fuoco allora tutto, ogni suo ente, lo è. Il mutare degli oggetti, del contesto, comporta la mutazione necessaria del soggetto stesso e quindi in P1 e P2 si avranno non due fiumi diversi, ma due fiumi e due soggetti diversi. Siccome «di ciò che muta non si può dire nulla di vero», allora per Cratilo sarà che nulla si può dire di vero in generale perché tutto muta. Platone, affascinato e convinto dalla certezza illuminante che nulla del mondo sensibile possa definirsi, troverà il regno delle Idee come luogo della conoscenza e della verità. Il suo impegno filosofico sarà interamente teso a conciliare la vanità nullificatrice delle cose mondane e l’inconfutabile senso della verità dell’essere ereditata dall’altrettanto ammirato ma opposto Parmenide.
In epoca contemporanea è stato Emanuele Severino a mostrare la tensione di questa gigantomachia filosofica in cui è risultata vincitrice la concezione della nullità dell’essere e degli enti che ha caratterizzato il pensiero greco e tutto l’occidente fino a oggi. La cultura in cui viviamo, secondo Severino, non è che un susseguirsi di tentativi di rimedio nei confronti dell’annullarsi delle cose, più o meno consciamente inteso e intravisto. Dei, scienza, azioni quotidiane, modi di vivere, letterature – in occidente si vede in ogni dove il marchio che i Greci hanno dato all’essere: un qualcosa che entra ed esce dal nulla, governato solitamente da un essere trascendentale e superiore che regola questo flusso: le idee, il Dio cristiano, l’uomo, la scienza, ecc.
Alcuni pensatori hanno intravisto e “portato a coerenza” secondo l’espressione di Severino, questa consapevolezza. È il caso di Leopardi, di Nietzsche e di pochissimi altri, tra cui l’italiano Giovanni Gentile. Questi filosofi hanno visto che intendere le cose come oscillanti tra l’essere e il nulla significa decretarne la loro nullità tout court.
Cratilo può a pieno titolo essere considerato un nichilista coerente, un nichilista ante litteram. Un pensatore che, con lo stesso rigore che ha animato i più grandi filosofi a noi noti, ha mostrato le conseguenze di una realtà diveniente per come tutt’oggi la intendiamo noi. L’incoerenza, la contraddizione sta infatti nell’affermare il divenire del mondo, fuorché del soggetto che lo guarda, lo vive e ne parla; l’idea che in questo fiume cosmico ci siano delle isole statiche su cui sia possibile costruire una conoscenza stabile e oggettiva non è che un’illusione dettata dalle necessità della vita, come avrebbe decretato Nietzsche millenni dopo.
Cratilo cercò di rinunciare alla sua stessa soggettività. Il suo rifiuto del linguaggio faceva cenno a una realtà inafferrabile, incomprensibile, riconsegnata al compito del pensiero per essere intesa coerentemente. A ragione, pensatori come Severino o Massimo Cacciari hanno affermato che il Cratilo platonico non sia affatto una riflessione sul linguaggio ma una «ricerca della cosa», uno svisceramento del senso dell’essere della nostra cultura, che ha preceduto di duemila anni gli esistenzialismi, le morti degli dei e gli affanni di pensatori contemporanei tanto sicuri di aver compreso il mondo e di averne pensato soprattutto il carattere diveniente.
Se qualcosa diviene allora tutto deve divenire e dunque bruciarsi, esaurirsi nella fiamma dell’essere senza che volontà o intelletto umani possano alcunché. Di fronte a questa consapevolezza il grande filosofo si distingue dal dilettante per saper cogliere la pesantezza del dover salvare l’intero mondo e accoglierlo nell’essere o lasciarlo cadere nel nulla, come fece Cratilo. Le sue scaglie di filosofia pervenuteci bastano ancora a includerlo nel cerchio dei grandi.