
Teorizzazioni e snodi nevralgici in una figura-chiave del jazz
di Michele Saran
Come per molti altri ambiti e campi, anche la storia del jazz può essere vista come un lungo, ininterrotto ciclo di eventi sospinto da un nugolo di rivoluzioni. Ve ne sono di fragorose, detonanti. Il free-jazz, per esempio, forse la più potente di tutte, in termini d’intensità dinamica (si pensi a Cecil Taylor), di sconvolgimento dell’armonia tradizionale, e certamente di messaggio culturale. Vi è anche un altro tipo di rivoluzione, ben più sottile, pacato, teorico, persino didattico, ma non meno innovativo. E che pure preesiste a quelle radicali, ne costituisce un diretto antenato, un prologo fondamentale. La figura di George Allen Russell, nativo dell’Ohio (1923), uno dei più grandi e importanti jazzisti bianchi, pianista, compositore e ricercatore, incarna appieno giustappunto questo comparto di sconvolgimenti “tenui”.
Ma tenui fino a un certo punto. Sono i primi anni ‘50, Russell si è installato nel clima rovente dell’avanguardia newyorkese già da un po’. Per la musica jazz, il quartier generale è la residenza di Gil Evans, altro jazzista bianco che ha in tasca la credenziale di genietto visionario per aver fatto nascere il cosiddetto “cool”, col nonetto di Miles Davis, in Birth Of The Cool (1949). Proprio da queste istanze fiorisce la maggiore discussione artistico-stilistica del decennio, e a capeggiarla sarà proprio Russell. Che succede se invece del solito giro di accordi fondamentali costruiamo un nuovo giro, un “modo” (come avviene da secoli nelle musiche orientali) che si basa su note che generalmente fanno da corredo? E cosa succede se permettiamo all’improvvisazione dello strumento di spaziare in senso cromatico all’interno di esso, anziché costringerla a rispettare il rigore dell’armonia?
Nel suo laboratorio (appunto “workshop”, come ebbe a chiamarlo), così, Russell inventa e codifica il famigerato jazz modale, praticamente la chiave di volta del jazz moderno. È a tutti gli effetti una rivoluzione sottile: a un orecchio non allenato, ma anche a chi è già più pratico di jazz, la differenza non sarà così lampante. Si continuerà a sentire un’impeccabile tonalismo, una melodia sulle prime tradizionale. Ma questo nuovo metodo, che Russell riporterà per filo e per segno nel Lydian Chromatic Concept of Tonal Organization (1953), un saggio che ha come modello nientemeno che il Dodekachordon (1547) di Glareano, getta le basi per una musica sottilmente astratta, sottilmente dilatata, quasi irreale, che aumenta la potenzialità del singolo esecutore e, ancor di più, importa tutta la distaccata arguzia dei compositori del tardo Ottocento, da Debussy a Ravel. Nuove prospettive creative si spalancano. E dunque l’album del periodo – il primo di Russell come leader, strettamente collegato a queste intuizioni teoriche, e appunto intitolato Jazz Workshop (1956), sta quasi per intero nelle mani dei comprimari esordienti, tutti seguaci della rivoluzione russelliana: tra gli altri, Art Farmer, Paul Motian, e un appena trentenne Bill Evans.
Passa qualche anno, dopo quello che è forse il maggior frutto della svolta modale, quell’arcinoto Kind Of Blue (1959) di Davis, e per Russell è di nuovo tempo di apporre nuovi cambiamenti, di nuovo impercettibili ma altamente innovativi. La suite per orchestra All About Rosie (1957) apre le porte a quello che si chiamerà “Third Stream”, la terza via al jazz (oltre allo swing e il movimento dei “boppers” di Charlie Parker), che ingloba a tutto campo elementi della musica colta, come la suddivisione in movimenti, la forma-sonata, l’arrangiamento a mo’ di sinfonia. E Russell, visionario che non sfigura a fianco del ben più celebre Duke Ellington, si mette proprio alla direzione della grande orchestra anche nei due dischi successivi, New York, N.Y. (1959) e Jazz in the Space Age (1960), opere che, oltre a prevedere un cast stellare, con nomi come Max Roach, John Coltrane, Paul Bley e altri, diffondono nuove consuetudini.
New York, N.Y. è uno dei primi concept-album del jazz. Attraverso la voce narrante di Jon Hendricks (inventore del vocalese e qui anche pioniere del rap), Russell ripercorre obliquamente la storia dell’arte jazzistica di una delle sue capitali, la Grande Mela appunto, e, in parte, la sua affermazione negli ambienti che contano. È una sorta di metalinguaggio, ancora praticamente alieno per chiunque, che si esprime di certo nell’estesa rilettura dello standard Manhattan, ma anche nei suoi originali, Big City Blues e Rico, entrambi componimenti importanti, almeno per estensione, e influenti per gli anni a venire. In Jazz in the Space Age le novità, sottili, sono due. Anzitutto vi è un primordiale uso dell’elettronica (preso affettuosamente dallo space-age pop del periodo), ma soprattutto c’è qualcosa che nemmeno agli assi del nuovo verbo modale, Davis e Coltrane, era riuscito: estendere la modalità alla grande orchestra. Russell si permette persino di scherzare con la terminologia ancora fresca d’elaborazione, tramite i titoli delle composizioni originali, Chromatic Universe (in due parti), il cromatismo esteso persino all’intero universo, e ancora meglio The Lydiot, l’idiota del metodo lidio da lui stesso brevettato, una sua rilettura del mito platonico del filosofo e la caverna. E Dimensions, dagli ampi e reboanti accenti dissonanti, cerca ancor più impazientemente di fuoriuscire dalla tecnica del modo. Ezz-Thetics (1961), incorniciato da dischi forse inferiori ma nient’affatto disdicevoli come Stratusphunk (1960) e Stratus Seekers (1962), procede proprio in questa direzione d’insofferenza artistica. E arriva pure il colpo gobbo. Nel 1964 Russell sente l’ispirazione tendere sempre più verso quell’Europa che lo affascina e conturba. La trasferta in terra scandinava, che lo terrà al di fuori degli States per più di cinque anni, vede l’organizzazione di una nuova orchestra di giovani comprimari all’esordio. Proprio qui il maestro tiene a battesimo la sua Gerusalemme Liberata, il suo Mosè, la sua Grande Jatte, un’opera che Russell porterà avanti, nella realizzazione, per stadi e raffinamenti successivi (anche futuri, fino al 1980): Electronic Sonata for Souls Loved by Nature (1969). I “cartoni preparatori” del caso si chiamano Essence of George Russell (1967), una session del 1966 da cui emerge una prima monumentale versione di un’ora, che occupa persino tre facciate di long-playing, e Othello Ballet Suite/Electronic Organ Sonata no. 1 (1968). Stavolta l’elettronica non fa da orpello come per Jazz in Space Age, ma da metodo, un metodo che tutto ingloba. Il suo jazz modale qui è solo un dettaglio, insieme a spunti di blues, di psichedelia, di serialismo, di folk dal mondo, in un mosaico di pathos registrato su nastro e poi rielaborato, alla maniera del Telemusik (1966) di Stockhausen.
È una delle più avventurose composizioni di tutti i tempi, jazz e non, per ensemble allargato, degna prosecutrice di quell’oscuro Epitaph (1962) di Mingus. Ancora una rivoluzione silenziosa. Il disco non vende, non circola a dovere, non ha seguito perché nemmeno critici e musicisti riescono a incasellarlo, ad apporre un sottogenere che faccia da slogan alla sua portata, ma nondimeno farà da fondamenta al Bitches Brew (1970) di Miles Davis e Teo Macero, e a diversi altri.
Taceremo, ma solo per motivi di spazio, sulla produzione successiva. Lungi dall’essere conclusa, la missione artistica di Russell post-Electronic Sonata persevera nello sfondamento delle barriere e nel sovvertimento dell’ordine, con concept ambiziosi sugli stadi dell’uomo e la sua evoluzione (non per niente il nome di battaglia di qui alla fine sarà Living Time), fatti di ensemble sempre più anomali. Il suo Lydian Chromatic Concept si guadagna una crescente rispettabilità negli studi musicologici, persino nei conservatori. E il suo nome finirà per diventare l’intellighenzia della musica jazz, contraltare colto e razionale ma, come si è visto, mai freddo o fine a sé stesso, della componente viscerale dell’improvvisazione. Non tanto un condottiero, più il saggio dietro le quinte. L’imprescindibile presenza. Senza, l’arte non si muove.