Le nostre radici genetiche

Modifica del DNA in Old Man’s War di John Scalzi e nel mondo reale

di Diego Tonini

Dopo la Guerra Subcontinentale, gli Stati Uniti, seppur vincitori, vengono estromessi dalla colonizzazione spaziale che è appannaggio di persone provenienti da paesi in via di sviluppo. Per gli americani esiste tuttavia un modo per raggiungere le stelle: al compimento del loro settantacinquesimo anno possono lasciare per sempre la Terra e arruolarsi nelle Forze di Difesa Coloniale (Colonial Defense Forces, CDF) per proteggere i pianeti abitati dagli umani dagli attacchi delle numerose specie aliene che popolano l’universo conosciuto. Questa è l’ambientazione in cui hanno luogo le vicende narrate in Morire per vivere (Old Man’s War),1 il romanzo del 2005 con cui John Scalzi inizia la sua saga spaziale di 6 volumi.

Sebbene sia un romanzo di fantascienza militare apertamente ispirato a Fanteria dello Spazio (R. A. Heinlein, 1959), Old Man’s War offre interessanti spunti di riflessione sul concetto di abbandono delle proprie radici. Nel libro di Scalzi, infatti, il protagonista, John Perry, e tutti quelli che come lui hanno deciso di arruolarsi nelle CDF, devono affrontare una triplice recisione delle proprie radici. Perry si arruola a causa di una fantomatica “promessa di ringiovanimento” che la CDF fa a tutti i cadetti, esplicitata nel contratto che il protagonista firma come: comprendo che offrendomi come volontario nelle Forze di Difesa Coloniale acconsento qualsiasi regime o procedura medica, chirurgica o terapeutica ritenute necessarie dalle Forze di Difesa Coloniale per migliorare le capacità in combattimento.

Questa seconda giovinezza ha però un prezzo: alla firma del contratto, chiunque si arruoli viene dichiarato legalmente morto sulla Terra, perde di conseguenza tutti i suoi diritti e ha settantadue ore per imbarcarsi su un ascensore spaziale alla volta della stazione orbitante delle CDF. È a questo punto che il protagonista affronta le prime due forme di scissione dalle proprie radici. La prima è prettamente geografica: come soldato delle CDF, Perry è per sempre interdetto dal rientrare sulla Terra: non rivedrà più la città in cui viveva, i luoghi in cui è cresciuto, non potrà nemmeno più visitare la tomba di sua moglie, né avrà più contatti con nessuna delle persone che conosceva.

La seconda scissione è di tipo culturale: Perry lascia il contesto sociale di cui faceva parte, gli affetti, tutti gli usi e costumi a cui era abituato, per abbracciare la vita militare nello spazio, lontano da tutto ciò che gli era noto, lontano perfino dal pianeta che ha dato le origini alla sua specie, conscio che non potrà farvi più ritorno. Perry non abbandona solo la casa, in un certo modo si separa anche dalla sua condizione di essere umano.

Ma la perdita di radici più “radicale” (passatemi il gioco di parole) avviene quando le nuove reclute affrontano il tanto desiderato processo di ringiovanimento. Tutte le loro congetture riguardo a cosa avrebbero subito si rivelano sbagliate e le aspettative addirittura troppo basse di fronte a ciò che li aspetta: le CDF infatti non hanno in serbo per loro degli interventi che possano ringiovanire il loro organismo, hanno preparato un corpo completamente nuovo, fatto crescere in vitro a partire dal campione di DNA fornito quando avevano manifestato il desiderio di arruolarsi, dieci anni prima. Non si tratta però di un clone, ma di un corpo potenziato, più forte e veloce, capace perfino di svolgere la fotosintesi clorofilliana, meno sensibile alla fame e alla fatica, che necessita solo di due ore di sonno per notte; un corpo creato ingegnerizzando il loro DNA, una forma di vita semisintetica che a stento si può ancora definire umana.

Nell’universo letterario di Scalzi questa svolta narrativa è resa possibile dall’elevata tecnologia delle specie aliene con cui i coloni entrano in contatto, ma nel 2019 quanta di questa capacità di editing genetico è realmente disponibile? Ovviamente, visto che nessuno di noi è verde, solleva centinaia di chili con una mano e corre alla velocità di un cavallo, la risposta è: “molto poca”. Che però è diversa da “niente”.

Senza scomodare i piselli di Mendel, si può affermare che la base della moderna biologia molecolare sia stata gettata da un fisico. Erwin Schrödinger, nel 1943, a dieci anni dal Nobel per la fisica, pubblica un libretto dal titolo Cos’è la vita? (What Is Life?) in cui ipotizza l’esistenza di un cristallo aperiodico che contenga tutte le informazioni necessarie per il trasmettersi dei tratti ereditari. Schrödinger afferma che la vita deve obbedire alle leggi della fisica e, di conseguenza, che le leggi della fisica possono essere usate per fare importanti deduzioni sulla natura della vita.

Nel 1944 diventa quindi chiaro che era il DNA, e non le proteine, a costituire il codice genetico e, dieci anni dopo, stimolati anche dal lavoro di Schrödinger, Watson e Crick, basandosi sulle immagini di cristallografia a raggi X realizzate da Rosalind Franklin, presentano il famoso modello a doppia elica della sua struttura.

Come spiega Craig Venter in Life at speed of light,7 identificare in una molecola il segreto della vita e spiegarne il funzionamento in termini chimici ha comportato un cambio di paradigma nella biologia, innescando una serie di scoperte che hanno modificato radicalmente anche il concetto stesso che abbiamo della parola “vita.” Gli esseri viventi non sono più un qualcosa di speciale nell’universo, non possiedono un’essenza che li differenzia dalla materia inanimata, il vitalismo è morto, gli esseri viventi sono hardware e il DNA il loro software. Per dirla con le parole di Tim Marzullo, neuroscienziato e co-fondatore di Backyardbrains.com, «si deve rinunciare all’idea che il cervello sia in qualche modo separato dal resto del corpo in un modo che lo pone al di fuori dell’analisi scientifica.» In questo senso, l’editing genetico non è molto diverso da qualsiasi altra tecnologia e perde l’aura di sospetto che vede i biologi molecolari come “uomini che giocano a fare dio.” Pur mantenendo un approccio laico e scevro da qualsiasi preconcetto di tipo vitalistico, la modifica del DNA pone comunque una serie di interrogativi etici e di fattibilità tecnica.

Dal punto di vista tecnologico, nonostante la disponibilità di strumenti come CRISPR/Cas, che permettono una manipolazione precisa e relativamente facile del codice genetico, siamo molto lontani dallo scenario descritto da John Scalzi e da qualsiasi forma di editing che porti a un potenziamento delle capacità umane.

Gli scienziati possono intervenire nella modifica di singoli geni, contribuendo alla cura di alcune malattie o di certi tipi di cancro, ma la comprensione dell’interazione complessa tra i geni, necessaria per apportare modifiche tali da cambiare il nostro aspetto o le nostre capacità di essere umani, è ancora al di là da venire. Allo stato attuale, nella maggior parte dei casi non siamo neppure in grado di assicurare una probabilità di successo tale da rendere i vantaggi di un intervento su un singolo gene superiori ai potenziali danni. Per questo motivo, qualsiasi pratica di ingegneria genetica umana svolta su embrioni, e quindi trasmissibile ai discendenti della persona modificata, viene generalmente condannata dalla comunità scientifica in quanto eticamente discutibile e scientificamente non sicura. La biologia molecolare ha però fatto passi da gigante, ottenendo risultati fino a pochi anni fa ritenuti fantascienza. È possibile sequenziare il DNA di un organismo, spedire via internet il codice così ottenuto e ordinare a una macchina di assemblarlo partendo direttamente dai nucleotidi con le diverse basi ACTG; è possibile introdurre sequenze volute nel DNA di un batterio, costringendolo a sintetizzare determinate sostanze o eseguire compiti specifici; è possibile addirittura costruire DNA artificiali in cui siano presenti basi diverse dalle quattro esistenti in natura.

Dopo l’età dei computer siamo entrati nell’era delle biotecnologie, ma, per ora, nessuno di noi può decidere, come nel romanzo di Scalzi, di farsi crescere occhi da gatto.

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