L’incarico

di Enrico Losso

«Certo non è saggio lasciare in casa, soli, una nonna decrepita e un nipote che appena ora incomincia a cambiare i denti. La colpa di ciò che può accadere non ricadrà su loro due, ma sugli altri.»
Le parole di Don Ninni lo raggiunsero piano piano, a volute acri, come il fumo che esalava dalla sua bocca. Ne percepì l’odore grave, anche se non ne aveva afferrato il senso.
Pietruzzo sapeva che Don Ninni amava essere enigmatico. Gli avevano detto che faceva così per creare soggezione in chi doveva obbedire ai suoi ordini e che per questo veniva chiamato ‘a Sibilla.
Per capire dove vuole andare a parare ci vorrebbero le Mappe di Gugol, si disse.
La soluzione per stare al suo cospetto era una sola: essere veloci con la testa.
E lui doveva essere all’altezza.
Gaspare ‘u lupu era andato a cercarlo fino al bar delle scommesse. Hai vinto il terno, gli aveva detto fissandolo con i suoi occhi gialli. Lui era sbiancato. Il primo incarico. Anche se aveva lottato tanto perché tutti lo considerassero un duro, la notizia lo aveva strizzato come un panno da appendere. Aveva fatto gocciare a terra tutta la sua baldanza. E ancora non si era ripreso del tutto.
Ora se ne stava seduto in poltrona piegato leggermente in avanti, con le mani unite infilate fra le cosce. Si ripeteva che se si trovava là, in quel momento, in quella stanza, voleva dire che era un Eletto. Stava giocando una finale di un mondiale di calcio, stava facendo l’amore con Belén.
«U capisti?»
Pietruzzo inghiottì prima di annuire.
Don Ninni ‘a Sibilla era intento a far ruotare con l’indice destro un mappamondo di quelli antichi. «La nonna e il nipote sono due colombe. Nella gabbia le hanno lasciate. Se dovessero smettere di volare, chi dovrebbero ringraziare?»
Pietruzzo si era soffermato sul movimento continuo del globo. Riuscì ad accorgersi degli occhi che lo puntavano appena in tempo.
«Gli altri.» Si affrettò a rispondere.
Don Ninni abbassò le palpebre. Sembrava soddisfatto.
«E se gli altri hanno la colpa, dopo non devono piangere. Potevano pensarci prima.»
Pietruzzo scosse la testa, stava per dire no, non devono, Don Ninni, quando il Capo riprese a parlare con voce più roca.
«E la colpa per chi è stupido va lavata.»
Il mappamondo si bloccò e fece vedere a Pietruzzo l’Argentina. Per il suo occhio che aveva studiato pochissimo significava America, al massimo America del Sud. Pensò comunque che in quel posto non ci sarebbe mai andato, non gli interessava. Lui amava Palermo. Palermo era tutto quello di cui aveva bisogno. E forse un giorno l’avrebbe comandata Palermo, se fosse stato veloce con la testa, oltre che con il grilletto.
«U capisti?»
Pietruzzo si maledì per essersi distratto ancora. Fece un cenno con la testa.
«E come si può lavare una colpa?»
Pietruzzo gongolò. Forse era giunto il suo momento. Bastava rispondere col sangue, detto in maniera grave, da uomo d’onore, e avrebbe conquistato Don Ninni, sicuro. Preparò la voce, calibrò il tempo per la stoccata.
«Col sangue va lavata, Pietruzzu.» Don Ninni diede un altro colpo al mappamondo. Fece finta di non accorgersi dello sguardo del picciotto. Portò con la mano sinistra il sigaro alle labbra. Fece passare qualche secondo, lo lasciò impregnarsi del fumo. «E anche se la colpa degli altri va lavata col sangue, le colombe pagheranno comunque, per colpe non loro.»
Pietruzzo inghiottì ancora. Doveva raccapezzarsi. Doveva essere veloce con la testa. Mise in fila: colpa, colombe, altri, sangue. Qualcuno sarebbe dovuto morire. Questo lo aveva capito. Forse tutti. Gli altri, sicuramente. Anche le colombe? E chi erano gli altri?
«U capisti?»
Nonostante un dolore intermittente avesse iniziato a martellargli la tempia destra facendogli strizzare d’istinto l’occhio, Pietruzzo raccolse le forze per dimostrare fierezza. Si alzò in piedi, sperando che non si notasse il suo tic improvviso.
«Ho capito, Don Ninni. Stia tranquillo, è cosa fatta.»

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