
Non un pranzo di gala
di Francesco Zanolla
Il marxista si pone sul terreno della lotta di classe, e non su quello della pace sociale
Lenin, La guerra partigiana, 1906
Articolare qualche riflessione sul concetto politico di “Rivoluzione” rischia di rivelarsi un compito assai arduo. Per farlo in una maniera che sia in qualche modo significativa, occorre infatti ingaggiare un tortuoso corpo a corpo con una delle tradizioni culturali più articolate, gloriose, esaltate, criticate e vilipese della modernità occidentale, che ne ha fatto uno degli snodi centrali della propria teoria e della propria prassi politica.
Stiamo parlando, ça va sans dire, del marxismo, che è riuscito nel corso della sua più che secolare storia a monopolizzare questa categoria concettuale, rendendola in qualche maniera paradigmatica, sia attraverso l’elaborazione teorica prodotta dalle sue figure di spicco, sia tramite il dispiegarsi concreto di tali elaborazioni nelle grandi esperienze rivoluzionarie (Russia e Cina, in primis) che hanno dato forma e significato alla storia del XX Secolo.
La parola “rivoluzione”, com’è noto, proviene dal lessico scientifico. Agli albori del Moderno descrive nulla più che il moto regolare e ciclico delle stelle e dei pianeti (il celebre trattato astronomico pubblicato da Copernico nel 1543 si intitola proprio De revolutionibus orbium Coelestium). Dalla metà del XVII secolo essa assume anche una connotazione politica, implicando però inizialmente, in parziale concordanza con l’accezione ciclico-astronomica originaria, l’idea di un moto di ritorno, di ristabilimento di uno stato di cose precedentemente turbato e sconvolto dalla sopraffazione e dal malgoverno delle autorità sovrane. É il caso delle cosiddette rivoluzioni inglesi della seconda metà del ‘600 per restaurare la “vera monarchia”, limitata e costituzionale, usurpata dagli Stuart, e in parte anche della rivoluzione americana, che mirava principalmente a eliminare gli abusi del governo coloniale inglese, degenerato, nella percezione dei coloni, in una forma dispotica e tirannica.
È con la Rivoluzione Francese, in particolare nella sua fase “giacobina”, dove più forte era l’influenza dei teorici illuministi radicali come Rousseau, che essa inizia ad avvicinarsi all’accezione pienamente moderna, designando un movimento che mira a rifondare da zero i rapporti politici e sociali, realizzando attraverso l’uso della forza illuminata dalla ragione un ordine nuovo, che assicuri agli individui il massimo grado di libertà politica e civile e di giustizia sociale.
Su tale matrice concettuale, in cui il moto rivoluzionario è pienamente proiettato entro un’idea di divenire storico nel segno del progresso, Marx ed Engels innestano un potente apparato diagnostico e prognostico, frutto di una trasfigurazione in chiave materialistica della dialettica idealistica di Hegel e del conseguente spostamento dell’attenzione sui sistemi economici, sui rapporti di produzione e sulle loro condizioni di sviluppo, funzionamento e trasformazione, arrivando ad affermare la centralità del momento rivoluzionario per superare le rovinose e inique contraddizioni che il modo di produzione capitalistico porta geneticamente con sé.
Il processo dovrà essere guidato dalla classe oppressa, il proletariato, che, sfruttando appieno proprio le contraddizioni prodotte strutturalmente dal capitalismo con le sue crisi cicliche, segnate da instabilità, miseria diffusa e conflittualità sociale, organizzerà la soppressione violenta e coercitiva dell’ordine borghese-capitalista, volgendo lo Stato e gli altri apparati istituzionali contro i detentori della proprietà privata dei mezzi di produzione. Una volta soppressa la proprietà privata, si instaurerà dapprima il modo di produzione socialista, nel quale la proprietà dei mezzi di produzione appartiene al nuovo stato proletario. A tale fase, secondo una scansione temporale non precisamente definita da Marx, né dai suoi epigoni, farà seguito quella in cui si completa il deperimento dello stato socialista retto dalla “dittatura del proletariato” secondo la formula utilizzata da Marx ne La lotta di classe in Francia del 1850 e nella Critica al programma di Gotha (Kritik des Gothaer Programms, 1875), e si passerà a una organizzazione dei rapporti di produzione basati su forme di cooperazione e autogestione spontanea e non coercitiva, definita appunto comunismo.
A questo punto, anche senza entrare nei dibattiti che segnarono la galassia dei partiti e dei movimenti marxisti tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, opponendo “massimalisti”, “minimalisti”, “rivoluzionari” e “riformisti” secondo linee di faglia spesso intrecciate e parzialmente sovrapposte, possiamo affermare che tale impalcatura concettuale:
a) consente analiticamente di distinguere ciò che è rivoluzione da ciò che non lo è (semplici violenze, insurrezioni, rivolte, congiure di palazzo, guerre civili, colpi di stato ecc.)
b) fu quella che animò nel 1917 l’azione dei bolscevichi russi guidati da Lenin, che aveva contribuito a definirne ulteriormente i tratti teorici, fissando il “paradigma rivoluzionario” che dominò lo spazio storico del Secolo Breve (Cina, Cuba, Vietnam…)
c) pose una serie di problemi di “collocamento ideologico” per i partiti comunisti e socialisti europeo-occidentali, che dalla fine della II Guerra Mondiale incorporarono nel loro bagaglio teorico e nei loro programmi tratti riformistici, gradualisti e social-democratici, sposando le istituzioni e le prassi della democrazia liberale-parlamentare e facendo dell’abbattimento del Capitale un obiettivo sempre più vago e poco definito.
Tale trasformazione era stata del resto già notata all’inizio degli anni ‘60 da alcuni sociologi e politologi anglosassoni (Daniel Bell, Seymour Lipset, Edward Shils tra gli altri), i quali avevano annunciato nel contesto dell’Occidente in pieno boom socioeconomico la fine delle ideologie, intese proprio come quelle tendenze del pensiero orientato alla rifondazione rivoluzionaria della società, nonché delle prassi politiche a esse associate.
La fine della Guerra Fredda, la caduta del Muro di Berlino, dell’Unione Sovietica e del suo blocco, la trasformazione della Cina in un sistema di “Capitalismo autoritario”, oltre a sancire la chiusura fallimentare di una parentesi utopica, sembrarono coronare sul piano dei fatti l’opera di falsificazione, per dirla con Karl Popper, dell’impianto teorico che quella parentesi reggeva. Il risultato più tangibile di tale falsificazione “fattuale” è stata la dismissione a la demonizzazione di quelle categorie che a tale impianto facevano riferimento e che da esso traevano origine.
Così, nella coscienza sociale occidentale odierna, l’idea politica di Rivoluzione è stata più o meno scientemente marginalizzata. È divenuta una sorta di grande “rimosso”, un ospite inquietante che non è bene si manifesti perché essa non è, come ci ricorda la celebre massima di Mao in esergo a Giù la testa (1971) di Sergio Leone, “un pranzo di gala”, ma “un atto di violenza”, un atto che rimette cioè in campo una concezione della politica in termini realisticamente conflittuali, come lotta violenta per l’autoaffermazione di gruppi di valori e identità collettive antagoniste, antitetica rispetto a quella delle moderne democrazie liberali, uscite in qualche maniera vittoriose dagli scontri con i grandi totalitarismi del Secolo Breve, e fondate invece su un’idea sostanzialmente normativa della politica, fatta di strutture e procedure che organizzano la convivenza tra gli individui tramite il dialogo e il negoziato pacifico.
Ma forse il suo re-instaurarsi come opzione concettuale ci porterebbe a dubitare, in maniera più critica e costruttiva, delle sorti magnifiche e progressive della democrazia così come la intendiamo e la viviamo oggi: per certi aspetti un insieme di idee, valori, istituzioni che cristallizzano le dinamiche sociali in circuiti funzionali a riprodurre gli assetti di potere culturale, sociale ed economico esistenti.
Aiutandoci magari a correggerne alcune distorsioni.