Niccolò a Gotham City

Virtù, corruzione, libertà: Batman nel labirinto di Machiavelli

di Francesco Zanolla

Può un apparente vizio rivelarsi una virtù?

È possibile redimere una comunità politica scivolata nella corruzione?

E, soprattutto, queste due questioni, che per secoli hanno tormentato filosofi, moralisti e uomini di stato, hanno effettivamente qualcosa a che fare con il terzo e ultimo capitolo della saga di Batman firmata da Christopher Nolan, vale a dire Il cavaliere oscuro – Il ritorno (The Dark Knight Rises, 2012)?

Ovviamente, chi scrive pensa di sì: si tratta infatti di due interrogativi chiave per interpretare alcuni dei conflitti e delle dinamiche drammaturgiche del film e le risposte che emergono dallo sviluppo della narrazione appaiono affini, e per molti versi consonanti, a quelle articolate 500 anni fa da Niccolò Machiavelli.

E dunque, ecco che all’inizio del film ritroviamo una Gotham City che da otto anni prospera, sicura e libera dal crimine organizzato, su quella che (come spettatori che hanno visto il precedente film ne siamo più che consapevoli) è a tutti gli effetti una menzogna.

Facendo assumere a Batman le colpe di Harvey Dent/Due Facce, il commissario James Gordon e Bruce Wayne, volevano infatti evitare di sopire il genuino risveglio dello spirito civico e della fiducia nella giustizia e nelle istituzioni messo in moto dall’azione e dal carisma del procuratore Dent prima della sua catastrofica mutazione, anche se questo comportava a tutti gli effetti una drastica negazione della realtà, vale a dire un atto solitamente oggetto di biasimo e deprecazione morale.

A simili dilemmi Machiavelli ha dedicato corpose, complesse e ambivalenti riflessioni, incardinandole tutte su di una concezione, per la sensibilità della sua epoca non poco scandalosa, riassunta magistralmente nel consiglio elargito agli uomini di stato ne Il principe (1532), al capitolo XV par. 3, e che pare adattarsi benissimo all’operato di Gordon e Wayne: Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quei vizi senza quali possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considererà bene tutto, si troverà qualcosa che parrà virtù e seguendola sarebbe la ruina sua e qualcosa altra che parrà vizio, e seguendola ne riesce la securtà ed il benessere suo.

Come ci insegna una lunga tradizione interpretativa in Machiavelli è netta l’intenzione di troncare definitivamente i residui legami tra morale religiosa e politica, che viene così ad acquisire una dignità ed una razionalità proprie, collegate alla spregiudicata osservazione della «verità effettuale»; inoltre, dato più importante per il nostro esame, abbiamo esplicitato il proposito di edificare una nuova tipologia di virtù, totalmente aliena da contaminazioni religiose e organicamente collegata alla sfera della comunità politica dove l’essere umano come cittadino attivo e partecipe della vita della repubblica raggiunge e realizza la pienezza della sua essenza. Diventa così possibile considerare sotto una nuova luce le massime che percorrono la seconda parte de Il principe e numerosi capitoli dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (1531), dalle quali ha avuto origine l’adagio proverbialmente a lui attribuito, ma in realtà mai enunciato testualmente, sul “fine che giustifica i mezzi”, e che acquista un valore nuovo se lo si reinterpreta tenendo conto l’operazione complessiva di rinnovamento delle categorie della riflessione politica che Machiavelli sta tentando di attuare.

Ecco che allora non tutti i mezzi sono giustificati da tutti i fini. Ed ecco allora che nel nostro caso, violare l’ordine delle categorie morali canoniche tacendo la verità per diffondere e perpetrare una menzogna, diventa non solo possibile, ma doveroso, se il non farlo significa mettere in gioco la possibilità per la comunità di continuare a prosperare libera e ordinata, esponendola nuovamente alle brame del crimine organizzato.

Per il cittadino virtuoso «non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né di ignomignoso; anzi posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le (si tratta della patria/comunità politica, n.d.a.) salvi la vita e mantenghile la libertà». (Discorsi III, 43, 5) Nel tumultuoso cosmo politico machiavelliano la virtù assume dunque un ruolo assolutamente centrale, essendo lo strumento fondamentale per tenere a freno e limitare la corruzione, ovvero il disfacimento della comunità politica segnato dal progressivo venir meno dell’ordine garantito da leggi, dal prevalere degli interessi particolari di uomini che «più presto vogliono i favori che il bene dell’universale» (Discorsi II, 22, 33) e infine dalla trasformazione della repubblica stessa in una tirannia vera e propria.

Questa polarità, tipica di tutto il pensiero repubblicano classico e moderno, riportata al film di Nolan, consente innanzitutto di far piazza pulita delle critiche di alcuni commentatori, tra cui Slavoj Žižek, che hanno tacciato il film di conservatorismo e di celebrare il capitalismo come unico sistema sociale possibile, dipingendo Batman come un difensore a oltranza dello status quo, contro i rivoluzionari guidati da Bane, che vorrebbero invece rivoluzionare l’ordine borghese-capitalistico di Gotham City. Quel che pare chiaro invece è che la parabola di Gotham City traduca in maniera piuttosto precisa la dinamica della corruzione così come gli scrittori repubblicani in generale e Machiavelli in particolare la descrivono.

A dare il là alla corruzione della città è infatti la cupidigia e la rapacità del tycoon John Daggett, quindi di un elemento interno e organico alla comunità di Gotham che, desideroso di fare le scarpe alle Wayne Enterprises, assolda Bane e il suo esercito di mercenari.

È quindi la cupidigia delle oligarchie possidenti, quella che Machiavelli definisce in più passaggi «l’ambitione» e «l’avarizia de’ Grandi» ad avviare ciò che è possibile davvero leggere come un “dramma repubblicano”. Una volta scatenate, infatti, le forze della corruzione prendono il sopravvento su chi le aveva evocate pensando di potersene servire soltanto per ridefinire a proprio vantaggio gli equilibri di potere interni all’ordine costituito, e procedono invece a rovesciarlo e stravolgerlo.

La libertà regolata da leggi, uno dei cardini del pensiero repubblicano, lascia sempre più il posto alla «licenza», e la repubblica diviene preda della volontà di un Tiranno che, proprio come nel film, ha la facoltà di uccidere, rubare, inscenare processi farsa e far prevalere il sopruso e l’arbitrio sui principi di giustizia del «vivere civile e politico».

Per contrastare tale processo Machiavelli non vede grandi alternative. Quando anche gli «ordini», vale a dire gli assetti istituzionali e costituzionali vacillano e crollano sotto i colpi della corruzione e di una Fortuna cinica e capricciosa, non resta che ricorrere ancora una volta alla virtù. La virtù dei capi e degli uomini straordinari, può, se le circostanze sono adeguate, sortire grandi effetti. Innanzitutto attraverso l’influenza esercitata sui cittadini meno dotati con l’ispirazione e l’esempio, poiché le imprese dei grandi uomini della repubblica «sono di tale riputazione e di tanto esemplo che gli uomini buoni desiderano imitarle e gli uomini cattivi si vergognano a tenere vita contraria a quelli» (Discorsi III, 1, 27). E poi attraverso l’azione diretta, che richiede accortezza, prudenza (cioè quell’avvedutezza ponderata frutto di un’attenta analisi della situazione), ma anche risolutezza, veemenza e coraggio.

Proprio lo stesso coraggio che nel finale del film occorre al manipolo di “eroi repubblicani” guidati da Batman per affrontare una milizia di tagliagole praticamente a mani nude e giocare a nascondino con un camion che trasporta un testata nucleare per le vie di Gotham City. Lo stesso coraggio che ci vuole per volare verso il mare aperto con la stessa testata agganciata sotto le ali e il timer della detonazione avviato verso il countdown finale.

È quindi ancora l’ideale civico a risuonare, assieme alla prevalenza di una dimensione etica che è anche di per sé stessa “politica”, e all’ideale classico-rinascimentale della “Gloria”, dell’azione individuale grande e magnanima proiettata costantemente sulla scena “pubblica” e collettiva. Soltanto alimentandolo in continuazione, ci dice Machiavelli, possiamo sperare di salvare dalle spire della corruzione e della tirannide sempre in agguato il «vivere politico e civile», la forma di vita associata che gli uomini si danno per coesistere pacificamente secondo giustizia. E allora, fortunato quel paese, come scriveva Brecht, che non ha bisogno di eroi. Ma molto più fortunato quello, ci sentiamo di chiosare, che nei momenti più tragici può contare su virtuosi (e machiavelliani) supereroi.

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