Notturno veneziano

La verità della notte nelle poesie di Diego Valeri

di Carlo Londero

Diego Valeri è il poeta di Venezia, cantore della luce, della pietra e dell’acqua della laguna. I suoi versi possono apparire un inno alla brillantezza spensierata della vita, magari velata di preziosismi decadentisti. Apro a caso, verso la fine, le Poesie scelte del 1977 e leggo alcuni versi: «Qui c’è sempre un poco di vento, / a tutte l’ore, di ogni stagione: / un soffio almeno, un respiro. / Qui da tanti anni sto io, ci vivo. / E giorno dopo giorno scrivo / il mio nome sul vento» (87). Non c’è bisogno di dire la competenza poetica di Valeri, autore che dimostra una raffinatezza compositiva inappuntabile unita a una disarmante agilità prosodica. Però si è soliti considerare Valeri un paesaggista, lirico colorista, poeta della vacanza o della joie de vivre. Tali riferimenti lo rendono un verseggiatore da non prendere troppo sul serio ‒ per buona parte del secolo scorso, anche Pascoli era additato quale semplice pittore di quadretti bucolici.

Valeri non è poeta dedicato alla leggerezza, all’effervescenza, alla volubilità della vita. Risponde al vero l’affermazione che i suoi versi si sostanziano di luci, colori, paesaggi, della concretezza delle cose. Grazie a questi elementi le sue poesie catturano la vita nella fragilità degli istanti, divenendo tutt’altro che frivole o giocose. Valeri ha compreso che l’uomo, dentro e come la storia, è passeggero: «La poesia è la stabile, l’eterna essenza (degna di essere amata), insita nella realtà transeunte e sempre provvisoria (perciò inamabile); la storia è questa medesima realtà, che passa via, che in sé consuma, che da se stessa si distrugge e si annienta». La poesia possiede «la densità e levità e trasparenza della parola; la pacata scioltezza dei movimenti ritmici; la nettezza dei contorni metrici […]; e quell’interno accordo del sublime col familiare […]; e quella immateriale concretezza delle immagini, apparenti e sparenti come per acque nitide e tranquille».5 Un esempio: «Mi desta a un tratto un sole crudo / che riempie di fuoco bianco / il cavo del cielo, tutto nudo, / su un verde d’acque battuto e stanco» (33).

Valeri è più tetro di quanto la critica ha voluto farci credere: nei suoi versi c’è un’oscura verità che cozza con le felicità a lui associate. Questo lato tenebroso è più palese nelle poesie ambientate nel farsi sera e poi notte del giorno o nella piena notte del sogno. Sebbene non siano molte, non è questo il luogo in cui raccogliere una silloge poetica di notturni valeriani. Ci basti qualche campione, controcanto allo stesso spartito di versi più noti e “diurni”. Iniziamo con lo stemperarsi della determinatezza del giorno-vita, quando cielo e acqua (siamo a Venezia) si confondono:

Tutta cielo è la sera.

E il cielo una lucente trama

di nuvolette bionde;

lievi brevi onde

di una splendida chioma.

Non appare la dea: si cela forse

dietro i veli dell’ultimo orizzonte.

Questo solo vediamo noi, mortali:

che divina è la sera. (90)

Per i mortali la sera è cessazione, morte. Oltre a questo motivo letterario, le parole rima si caricano di fonosimbolismo: i suoni cupi dati da vocali o e il rallentamento del discorso nelle consonanti m e n aggravano la tonalità come il pigro morire del giorno. Di notte la concretezza del reale si riduce a pochi tratti. L’io non distingue contorni e sfumature delle cose. Tutto è annerito o ammutolito; la vitalità consueta è sospesa, interrotta indefinitamente. Dall’immobilismo emergono solo arcani rumori, plutonici e suadenti come in Notturno:

La testa sul cuscino, odo strisciare

nella tenebra grandi acque vicine,

più vicine, lontane.

È un suono dolce con lungo pedale,

è l’infinita musica del tempo

che mi rapisce fuor del tempo, poi

che la fuga dei giorni è già l’eterno

e la vita che muore è già la morte.

Ascolto il dolce suono;

né so se più mi attristi o più mi giovi

l’essere vivo ancora, nel mio chiuso

corpo di carne, nel fluire uguale

del mio sangue che fugge per la notte,

con striscio d’acque vicine lontane. (83)

I versi potrebbero essere lo scivolìo incosciente dalla veglia al torpore del sonno. Pare quasi che l’onirismo spinga l’anima – o lo spettro (l’io è vivo o morto?) – a veleggiare sulla laguna. Eppure la notte è anche il tempo consacrato all’amore. Così si legge in alcune strofe della Piccola antologia palatina:

Notte, tu più non hai per me

dolci braccia, una spalla dolce,

su cui posare la tempia,

ad ascoltare

il tuo muto passo che va.

*

Il paesaggio del tuo piccolo corpo

ha un respiro di luci e di ombre,

di terre e di acque,

di fronde verdi, di dolci colline

sotto un sole di aurora.

Se poso la guancia sul tuo petto

odo gemere ancora gli usignuoli notturni. (74-75)

Nella prima strofa l’amore consente lo straniamento dalla stordente mutezza lugubre notturna. Nella seconda strofa ‒ mentre l’io, alla prima luce del giorno, ammira il corpo femminile come una veduta attraverso la metafora topografica ‒ la nottata è ricordata (odo ancora) per l’amplesso. La notte conclude il suo giro. Il giorno sorge e riattiva le facoltà intellettive e razionali dell’io che si compiono con Risveglio:

L’odore mattutino

degli alberi, e le strisce

verdi nel cielo bianco cenerino…

I miei sensi si allungan come bisce

a toccare le cose, a discoprire

dietro le cose le antiche memorie,

le incredibili storie

dell’ieri, del domani, del morire. (53)

Tuttavia l’amara cognizione percepita nella notte non viene che confermata dalla realtà illuminata e sensibile: il giorno svela a Valeri che «dietro le cose» si scorge il «morire».

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