
Piccole vittorie del verde sulla dimensione antropica
di Gian Pietro Barbieri
Osservando la piana da un’altura, sembra tutto fermo, anche le auto in movimento, lontane, sembrano inclinarsi all’asse terrestre, paciose nel verde affiorante, nel mare verde che sgorga con cieca cocciutaggine, con fede profonda da un buio oscuro che tutto ammanta. Poi, scendendo, entrando nel quadro visto dall’alto e incorniciato di cielo…
IL CAPANNONE
Era un capannone con un ampio piazzale; pareva adagiato sulla superficie terrestre. Il sole riverberato liquefaceva i cementi e gli asfalti, ruggiva ruggine il cancello. I denti a sega del tetto del capannone mordevano il morbido orizzonte delle colline. Da pulsazioni, ricordi, tensioni profonde, radici sbrecciavano gli asfalti disegnando venature verdi; vitalbe, intrighi di rovi, getti spavaldi di umili olmi e cuoricini di pioppi invadono il piazzale. Non c’è nessun movimento, nessuna espressione o emozione, né gioia, né rabbia. Solo una strana sensazione di pace. Sembra che il peso del manufatto costringa lingue di verde a uscire dal sotterraneo dove si sono rifugiate. Mi guardo intorno e scopro di essere il solo umano presente in quel punto emarginato della zona industriale, insieme al silenzio. È un silenzio minerale, lo stesso che ascoltiamo vicino a inspiegabili grandezze quali dirupi, massicci montuosi, fiumi in piena: un silenzio che dischiude. Da uno dei finestroni frantumati fa capolino una civetta; è padrona della situazione, si guarda intorno come un padrone di casa soddisfatto. Poco lontano alcuni cartoni abbandonati tradiscono fori sbriciolati.
La differenza colpisce come uno schiaffo a colpo d’occhio: le aziende produttrici vicine a questo edificio sono luminose, occupano uno spazio tutto loro, esclusivo, sono in salute. Il verde è opaco; alcune foglie tormentose aumentano la sensazione di uno strato di polvere depositatosi sulle piante e da lì ovunque, anche lungo i muri perimetrali dell’edificio abbandonato dai quali trapelano graffianti gramigne. Non è più solo, si scopre imbarcato, rapito, posseduto.
È un dipinto in movimento, una tela grigia riempita da ampie pennellate di verde. È una scultura, significa qualcosa che non dice.
LA STRADA
Una strada chiusa, sbarrata da transenne: la carreggiata era troppo stretta, il percorso troppo tortuoso o impossibile da allargare per far spazio allo sgomitare dei TIR; l’asfalto è impallidito, ha lo stesso terreo colore dei pazienti in ospedale. Indifferente e quasi cinica, sotto un cielo cobalto la strada nuova si srotola poco distante e sorride brillando d’auto.
Ma sulla strada chiusa qualcosa si muove: è un biacco, striscia luminosa di vita, lancia bagliori metallici dalla sua pelle nera; ma è dai margini sbriciolati della carreggiata che sale un’effervescenza, una muffa verde; pervade sorniona e filiforme l’uniformità del manto stradale, avanza come lenta fanteria d’assalto, con i propri esploratori che azzardano sempre nuove distanze, nuovi altrove, ciechi e smaniosi. Prosegue la sua strada senza direzione il verde ma, da un lato all’altro della corsia, sono sue le due mani che tentano di congiungersi e saldarsi, a stringere insieme un patto incorruttibilmente, seguendo un piano di copertura perfetto.
LA DISCOTECA
Ancora l’eco della musica assordante sembra pendere dai corimbi bruni d’una rampicante che si sporge pencolante dalla grondaia sfondata; i bagliori delle luci stroboscopiche rivivono nel carapace della cetonia aurata; ballano in un turbine di vento i pappi del pioppo; i profumi, gli effluvi divini di essenze afrodisiache per celare il sudore li incarna la robinia.
Tra poco scende la sera, e questo luogo abbandonato tornerà ad assomigliare alla grande carcassa di un dinosauro volante sfracellatosi al suolo ed immerso nel silenzio… tutto quel silenzio, il silenzio assoluto delle “cose”. L’insegna una volta luminosa ora pare più buia del buio, ma le lucciole la ricordano mentre sorvolano il gomitolo di rovi e sul tronco di un vecchio pioppo, dov’era appesa la grande “P” del parcheggio, è ospitata una tendopoli di funghi pioppini e qualche sacchetto d’immondizia, dietro la siepe che dà sulla strada è una nota di colore non ancora sbiadita che spicca vivace su tutta la monotonia del verde. Ancora a ricordare il ritmo ipnotico di una danza, di una musica che un tempo era racchiusa tra le valve della disco, il singhiozzo liquido di uno scoiattolo che in un istante attraversa il piazzale e scompare tra le chiome applaudenti di un pioppo.
LE ROVINE
Chissà cos’era: una chiesa? Un palazzo, o forse no, è un manufatto più recente, forse solo una casa diroccata, un magazzino abbandonato. Pochi timidi muri e nudi mattoni atterrati, vinti. Qualsiasi cosa fosse, ora sono solo rovine invase dalle infestanti: tentativi di rianimazione, di rimpolpamento di uno scheletro; paiono un paradossale tentativo di cancellazione attraverso la ricostruzione di trame, grovigli, geroglifici.
Una sovrascrittura della realtà sprofondante che la tiene a galla, la connota. Le vibrazioni delle foglie, il guizzo verde metallo del ramarro, l’aritmia cardiaca del volo d’una farfalla: questa rovina è asilo per il riccio, il biacco, lo scorpione; le ossa dei ruderi pullulano, brulicano vita.
Il verde mastica con denti di leone e sembra un suddito con l’erba e gli arbusti che salgono dal suolo devoto a queste rovine; solo il verde sembra ricordarle, venerarle per quel che sono state: forse solo abitazioni umane e ora luogo dell’abbandono, inno del vuoto, del tempo che fu.
Alla fine solo il verde rimane.