
di Francesco Zanolla
Avevo deciso di uscire comunque, dopo cena.
E mentre mi muovevo in stato semi comatoso sotto i portici del corso, era deflagrato per un secondo fuggevole il pensiero già censurato di chiamarla.
Accendere il cellulare, spento da quasi una settimana. Comporre il suo numero, controllando il ritmo cardiaco con respiri profondi e cadenzati. Attendere il “Pronto” all’altro capo della linea. La sua voce bassa al cellulare.
Il tono appena distorto da lievi raffiche di statica, o magari la pronuncia falsata da una caramella che vaga tra le gengive ed il palato, scrocchiando sui denti.
E poi riattaccare.
Perché non sarei stato in grado di sostenere una conversazione telefonica con lei.
Né con nessun altro.
A dire il vero non sarei stato in grado di sostenere assolutamente nulla.
Avevo solo voglia di una birra.
Scelsi un locale vicino al municipio. Con lei non c’ero mai venuto. Quindi andava bene.
Ma i tavolini fuori erano pieni. Più che altro coppie.
Così mi piazzai dentro, dove non c’era praticamente nessuno.
Ordinai una bionda in bottiglia.
La cameriera me la portò. Rapidissima. Talmente rapida che quasi me la rovesciò addosso, incespicando sulla gamba di una sedia malmessa.
“Ti ho bagnato?” chiese. Era proprio preoccupata, o per lo meno lo sembrava davvero. Traspirava sollecitudine autentica e un disagio sommesso che un po’ mi inteneriva, anche se aveva una voce calda e bassa che in altri tempi non avrei esitato a considerare arrapante.
“No, non preoccuparti”, la tranquillizzai mentre mi alzavo in piedi, tastandomi i pantaloni.
Mi portò subito un’altra bottiglia. Si scusò ancora. Mi chiese se poteva portarmi qualcosa da mangiare, magari due patatine.
Fu allora che entrò una pattuglia strepitante di baccanti, in un turbinio di borsette etniche, stivali frangiati, ballerine dorate, body a balconcino e lussuosa bigiotteria pseudominimalista.
Attorniavano una ragazza in sottoveste, incoronata da un parruccone afro color ebano profondo, che abbracciava una sagoma di cartone a forma di cazzo gigantesco.
“Viva la sposa!” esordì con voce stridula quella che doveva essere la maestra di cerimonie.
Poi, si rivolse al barista. “Capo, un giro di Spritz. Campari per tutte.”
La sposa incrociò per un attimo il mio sguardo. Occhi verdi, appena velati dalla classica patina di alcol e stanchezza.
Iniziò a muovere qualche timido passo verso il mio tavolo sotto l’occhio matronale, benevolo e pesantemente bistrato della maestra di cerimonie.
“Ciao” sussurrò quando arrivò a portata di voce. “Ecco” esitò un secondo, poi soffiò le parole fuori, tenendo la linea dello sguardo obliqua verso il pavimento. “Dovresti offrirmi da bere.”
“Immagino che prima ti debba accomodare” le risposi accennando alle due sedie non occupate dalla sua parte del tavolo e lei, composta e precisa, perfettamente conscia della liturgia, si sedette su quella che mi stava di fronte posando il cazzone sull’altra.
Tolto di mezzo il megafallo, la scollatura della sottoveste si rivelò piuttosto profonda, punteggiata di efelidi chiare. Sotto la parrucca dovevano esserci capelli rossi o biondi chiari.
Ci stringemmo la mano presentandoci.
Il palmo era tiepido e morbido. Un tocco leggero e delicato, ma non inerte, che si imprimeva nella memoria e parlava di possibilità non consumate, di ennesimi universi germogliati e appassiti lungo curve di probabilità desuete e di funzioni d’onda venute meno al momento dell’osservazione.
“Cosa bevi?”
Sentore svaporato di profumo dolce.
Era come se da un momento all’altro potesse mettersi a piangere. O a sghignazzare. O a ballare sul tavolo. O a fare le tre cose insieme.
“Niente di troppo pesante. Ho già fatto il pieno stasera.”
Come se stesse lottando per trattenere dentro, o per cacciare fuori, qualcosa di abnorme, schiena dritta e mani in grembo, come una penitente davanti al confessore.
Sorrisi e feci un cenno alla cameriera, ordinando un breezer all’arancia.
“È okay l’arancia?” le domandai.
Lei annuì.
Parlami solo di quello che hai fatto. E di quello che non hai fatto.
Parlami di dove sei stata. Di dove non sei stata. Di chi ti ha indotto a fare pensieri poco ortodossi. Tramonti su lagune stagnanti. Il sole che avvampa prima di morire dietro la curva dell’orizzonte. Nevrotici arabeschi di zanzare nell’aria che sa di salmastro e frutta troppo matura.
Invece ripiegai su un “Quando il gran giorno?” che faticai a far suonare interessato.
La cameriera arrivò con la sua bibita e le mie patatine.
“Sabato prossimo” sibilò guardando di sottecchi la matrona che puntava il telefonino verso il nostro tavolo iniziando a far saettare il flash.
E fu allora che lei partì. Si protese verso di me urtando il tavolino, la bottiglia di breezer si sdraiò inondandomi i pantaloni, e mi prese il viso tra le mani, cercando la mia bocca con le sua, mentre la matrona strepitava scattando foto a ripetizione e la pattuglia delle amiche si lasciava andare a qualche incitamento di circostanza senza smettere di sorbire gli spritz e ruminare salatini.
Mi aspettavo che si limitasse a doppiarmi le labbra ben serrate. Invece dopo il contatto, una leggera pressione. E la bocca che le si schiude delicata come un fiore notturno. E la lingua che tasta curiosa il terreno delle mie labbra, che accennano timide ad aprirsi. E un uncino d’acciaio che mi aggancia la spina dorsale.
Quindi, il flusso del tempo che s’impenna e scarta.
Un parco o un giardino pubblico. Forse un bastione. Pomeriggio.
L’ora del jogging. Tigli e gelsi di un verde irritante.
E carne che si rilassa al sole.
Una morbida carrellata circolare attorno a noi due che parliamo, seduti sull’erba, fin troppo vicini, il sole è la solita fornace all’idrogeno, estatica vibrazione di luce, e immobili in aria, come nubi, parole a suggerire parabole di eventi alternativi. Pochi fotogrammi subliminali, che sfarfallano ai limiti del campo visivo, lungo le scie degli stati di sovrapposizione.
Poi, il silenzio benevolo che segue piccole catastrofi.
E mani che finalmente si cercano, quando parte una dissolvenza in nero.
Fu a quel punto che riaprii gli occhi. Il suo viso era a meno di dieci centimetri dal mio. La patina che le velava gli occhi, come rappresa in grumi.
Forse lacrime. Il respiro leggero ed affannato ancora in sincrono con il mio.
Le amiche nel frattempo ci avevano circondato, berciando in coro “Vale Vale olè olè Vale Vale olè olè”.
Dietro il bancone la cameriera e il barista mi guardavano. Come si guarderebbe uno che è sopravvissuto ad un disastro aereo.
La matrona intanto la aiutò a rimettersi in piedi. Poi recuperò il cazzone rimettendoglielo in braccio. Mi scattò un’ultima foto e le cinse la spalla con un braccio, accompagnandola lentamente verso l’uscita dove si assiepavano le altre amiche.
Fuori l’aria era fresca e la notte pareva ancora giovane.
Dalla cintola alle ginocchia ero fradicio.
Dio gioca davvero a dadi con l’universo.
“Ti ricordi la lista?” le stava dicendo mentre infilavano la porta. “Il prossimo te lo devi portare in bagno…”