Traduzione e ospitalità

Riflessioni sul concetto dell’etica della traduzione

di Eugenio Radin

Sembra che gli antichi greci non amassero tradurre. La barriera insuperabile, qui come altrove, risiedeva nel fatto che, nella loro oplitica superiorità, le piccole poleis elleniche considerassero le altre lingue prive di λόγος (logos) e, dunque, incapaci di ragionamento. Per essi insomma, i linguaggi stranieri non possedevano molto più valore di un incomprensibile tartagliare barbarico.

Fu invece Roma a rendersi conto per prima delle possibilità dell’acquisizione linguistica: ma le versioni dal greco di un Orazio o di un Properzio sono in realtà ancora assai distanti da ciò che oggi siamo soliti chiamare traduzione. Piuttosto, la pratica del “vertere barbare”, aveva la finalità di ampliare i confini intellettuali dell’impero. Come farà notare Nietzsche quasi due millenni dopo:

In verità si conquistava allorquando si traduceva – non solo trascurando l’elemento storico, ma aggiungendo l’allusione al presente, cancellando soprattutto il nome del poeta e mettendo il proprio al posto di quello – non già col sentimento del furto, bensì con l’ottima coscienza dell’imperium Romanum.

Nella versione romana della traduzione dunque, lo scopo principale è quello del “far proprio il diverso”, di assimilare, senza alcun interesse per la cultura di partenza, i suoi autori, le sue credenze. La traduzione nella sua accezione odierna, invero, arriva a noi attraverso due tappe fondamentali: la diffusione del messaggio cristiano (in particolare con la predicazione di Paolo) e la grande rivoluzione dell’età moderna (in particolare con l’operazione esegetica luterana).

L’intuizione geniale del predicatore di Tarso è, a ben vedere, un’intuizione traduttiva: Paolo per primo comprese che per riuscire a diffondere il messaggio evangelico oltre la ristretta dimensione settaria in cui si trovava rinchiuso, era necessario tradire l’originale e compiere un passo verso lo straniero, verso l’altro.

Per permettere all’insegnamento cristiano di essere accettato presso le altre culture, Paolo intuì la necessità di far parlare la Scrittura tramite le categorie di queste altre culture, introducendo nella dottrina concetti inizialmente estranei ad essa e lasciando che il cristianesimo accettasse così la propria traduzione. Tramite Paolo, la Parola assume sin da subito la sfida del “farsi qualcosa d’altro”; comprende che, per diventare universale, deve prima uscire da sé.

Nella predicazione paolina dunque, emerge primariamente il paradosso di ogni traduzione: ovvero il suo essere caratterizzata simultaneamente da un desiderio di fedeltà e da una necessità di tradimento. Tradurre significa allora servire due padroni: l’originale nella sua opera e lo straniero nel suo desiderio di appropriazione.

Giunsero poi la modernità e la sua portata rivoluzionaria: la scoperta dell’America portò con sé l’enorme problema dell’altro e del rapporto con l’altro – un “altro” mai visto prima, imprevisto e destabilizzante –, la diffusione del cannocchiale e l’osservazione della volta celeste condussero alla consapevolezza della pluralità di mondi e alla perdita di centralità dell’uomo nell’universo, al crollo del principio di autorità e al sorgere di una nuova soggettività e di un nuovo sentire, non più soggiogato a un ordo universalis, ma desideroso di verificare e di sperimentare da sé nuove teorie e nuove relazioni.

E tuttavia non ci sarebbe stata la modernità senza l’esperienza protestante e senza la nuova traduzione della Bibbia operata da Lutero. L’impresa dell’agostiniano di Sassonia mette in chiara luce la natura della traduzione e di ogni lingua particolare: non esiste – questo a ben vedere l’esito filosofico dell’impresa luterana – un linguaggio che sia “divino” e che, solo, possa arrogarsi il diritto a uno statuto superiore: ogni lingua è invece una modalità peculiare e determinata di rapportarsi col mondo e ogni traduzione sarà allora espressione di quel qualcosa, innervato all’interno di una lingua e di una cultura specifica. Con Lutero ogni soggetto è chiamato a fare in prima persona esperienza della traduzione e, tramite questa, della sua stessa soggettività.

Da questa ricostruzione storica della pratica traduttiva, che per necessità ha dovuto essere breve e focalizzata su pochi nodi centrali, emerge una considerazione interessante: sembra infatti che si possa stabilire una relazione tra la capacità propria di un popolo, di un’epoca e di una cultura di confrontarsi con l’altro – di fare politica, nel senso più ampio del termine – e il modo in cui questo stesso popolo, questa stessa epoca e questa stessa cultura si rapportano alla pratica traduttiva; relazione che potremmo riassumere con la formula: “dimmi come traduci e ti dirò chi sei”. E se ora abbandoniamo la riflessione storica per dedicarci al presente, sembra che soprattutto oggi e soprattutto in Europa, il problema del rapporto tra “identità” e “differenza” – cruccio ineliminabile di ogni traduzione – sia una questione di primo piano nella definizione di un nuovo ethos politico.

La necessità di creare una nuova rete tra stati sempre più orientati verso un nuovo nazionalismo, il bisogno di costituire una comunità europea unita, che sappia interfacciarsi allo scenario internazionale, nonché l’urgenza di fronteggiare la questione migratoria e il rapporto con l’alterità che il Mediterraneo ci pone, sono questioni centrali dell’attualità, accomunate dallo stretto legame che tutte intrecciano con il problema traduttivo: ovvero quello di saper affrontare la doppia resistenza del proprio e dello straniero, la doppia sfida della fedeltà e del tradimento. Sembra dunque che una riflessione filosofica sul problema della traduzione possa essere la chiave per la delineazione di un nuovo presente storico, sociale e politico.

Paul Ricoeur, uno tra i più importanti filosofi francesi contemporanei, dedicò i suoi ultimi lavori (tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila) proprio al problema traduttivo e alla correlazione esistente tra traduzione ed etica. Il nodo centrale, secondo Ricoeur, risiede nel fatto che la doppia resistenza del proprio e dello straniero culmina nel timore che la traduzione sia sempre, in sé, una cattiva traduzione: un’impresa impossibile e sbilanciata, dalla quale è bene astenersi una volta per tutte.

Fondamentale è invece, per il filosofo transalpino, rinunciare all’ideale della traduzione perfetta, al tempo stesso fedele all’originale e alla lingua d’arrivo. Solo tale rinuncia a un’idea fantasmatica e impossibile permette infatti di assumere la problematica della fedeltà e del tradimento.

Sostiene Ricoeur che è proprio il lutto per la rinuncia alla traduzione assoluta a rendere possibile la felicità del tradurre. La felicità del tradurre diviene un guadagno allorché […] accetta lo scarto tra l’adeguazione e l’equivalenza, l’equivalenza senza adeguazione. Qui sta la felicità.

La chiave traduttiva starebbe dunque nell’accettazione dell’impossibilità dell’adeguazione, nella capacità di accogliere la lingua straniera nella sua irriducibile alterità: in questo consiste il concetto di “ospitalità linguistica”, modello e chiave di ogni altro tipo di ospitalità: «Ospitalità linguistica quindi, ove al piacere di abitare la lingua dell’altro corrisponde il piacere di ricevere presso di sé, nella propria dimora d’accoglienza, la parola dello straniero». Abitare l’alterità, le categorie di pensiero dello straniero e al contempo fornire allo straniero l’ospitalità linguistica della propria cultura, in un reciproco scambio di memorie. In ciò consiste, per Ricoeur, la chiave per la costruzione di una rete comunitaria alla base di una nuova etica europea. È quindi non solo legittimo, ma addirittura necessario parlare di un ethos della traduzione: «suo compito sarebbe ripetere, sul piano culturale e spirituale, il gesto di ospitalità linguistica sopra richiamato»

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